Pubblichiamo questo testo uscito su Ill Will il 24 Febbraio scorso e scritto dunque prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Ci sembra estremamente rilevante, tra gli altri aspetti, per l’analisi del ruolo delle forze rivoluzionarie nei vortici e nei cicli di rivolta. L’analisi del ruolo controrivoluzionario dello stato russo come polo della governamentalità capitalistica globale ed ipoteca sulle insorgenze nell’Asia Centrale ci sembra quanto mai attuale. Ringraziamo di cuore M. per la traduzione.
Al cospetto dei lavoratori armati, ostacoli, resistenze e impossibilità svaniranno tutte.
Blanqui
La teoria dello Stato è la scogliera su cui le rivoluzioni del nostro secolo hanno fatto naufragio1. Durante le rivoluzioni delle Primavere Arabe, la popolazione ha portato alla caduta del regime, ma le istituzioni dello Stato sono rimaste intatte. Altrove le rivoluzioni si sono sciupate in estenuanti guerre civili. Ad ogni latitudine dove il vecchio regime sembra essere abbattuto, esso sembra trovare nuove forze e risollevarsi. A cosa somiglierebbe la situazione se si rompesse definitivamente questo ciclo?
In passato, delle insurrezioni sono riuscite a sconfiggere lo Stato, piuttosto che esclusivamente un governo in particolare. L’insurrezione è qualcosa di più di un’ondata di sommosse, di proteste militanti, di blocchi, occupazioni e così via. È l’apertura di una frattura, la ricerca di quel punto dopo il quale non c’è ritorno. Se le rivoluzioni della nostra generazione non hanno sconfitto lo Stato, sosteniamo sia accaduto perché non ci sono state insurrezioni: ci sono state sollevazioni non-violente, scontri armati, guerre civili, ma ancora nessuna insurrezione.
Nei prossimi anni, avremo a che fare probabilmente con esperimenti nell’arte dell’insurrezione, poiché una nuova generazione di rivoluzionari si sforza a superare gli ostacoli e le impasse affrontate dalle rivolte del 2011 e del 2019. Il Kazakistan, un Paese che molti americani [ma non solo aggiungiamo noi n.d.T.] conoscono esclusivamente a causa del franchise del film Borat, potrebbe offrire uno scorcio d’anticipo su questo futuro. Gli eventi recenti in Kazakistan sono quanto di più vicino una rivolta sia arrivata a svilupparsi in un’insurrezione su grande scala, dall’inizio dell’ultima ondata di rivolte del 2018. Questo ci permette di immaginare la forma che avrebbero potuto prendere movimenti recenti, come la rivolta di George Floyd, se fossero andati oltre. Il corso degli eventi in Kazakhstan suggeriscono una possibile bussola con la quale navigare le trappole che hanno fino ad ora fatto naufragare le rivoluzioni contemporanee. Offrendoci uno spaccato lucido della forma dell’insurrezione in arrivo, la rivolta ci permette di interrogare i limiti che una situazione insurrezionale potrebbe affrontare.
Il vaccino-rivolta
Il giorno di capodanno 2022, il governo del Kazakistan ha deciso di rimuovere la tariffa tetto stabilita per la benzina, provocando il raddoppiamento del prezzo da un giorno all’altro. Le proteste sono scoppiate sin dal giorno seguente nell’ovest del Paese, la regione produttrice di benzina. Simbolicamente, le prime manifestazioni si sono tenute a Zhanaozen, una città il cui nome è conosciuto per la violenta repressione dello sciopero dei lavoratori del petrolio nel 2011, sfociato in un’ondata di rivolte che coinvolse tutta la regione.
Quest’anno, via via che la protesta si è diffusa ha assunto un carattere più generale, raccogliendo lungo la strada nuove rivendicazioni. Nel momento in cui le manifestazioni hanno raggiunto Almaty, l’ex-capitale e la città più grande, hanno iniziato a riflettere uno scontento sociale generale, toccando una frustrazione diffusa verso l’ineguaglianza, la povertà e la corruzione nel Paese. I manifestanti a questo punto richiedevano che l’ex-presidente Nursultan Nazarbayez venisse rimosso dalla sua posizione a capo del Consiglio di Sicurezza. Nazarbayez era stato presidente per circa 30 anni, ed i più ritenevano che stesse in realtà ancora controllando il paese da dietro le quinte.
Fino a qui, questi eventi seguono una sequenza già vista. Le rivolte che fecero tremare la Francia e il Sudan alla fine del 2018 iniziarono entrambe in zone provinciali sotto forma di protesta contro il carovita.2 Lo stesso si può dire della rivoluzione in Tunisia che iniziò a fine 2010, dando il via alle Primavere Arabe. Le proteste francesi erano inizialmente in risposta ad un’imposta sulla benzina. In Sudan, erano catalizzate dalla fine dei sussidi governativi sui bisogni primari, come benzina e grano. Le proteste in Sudan similmente iniziarono in una città industriale, nota per la sua storia di classe e di repressione. In tutti questi Paesi, le proteste raccolsero più rivendicazioni nel loro arco di crescita. Man mano che la forza del movimento cresce, il suo immaginario di ciò che è possibile tende ad aumentare. La capitale ogni volta diventa il centro di gravità del movimento, che a quel punto aveva poco a che fare con la rivendicazione iniziale.

Ad Almaty, le cose hanno poi subito una veloce accelerata. Le proteste sono iniziate il 4 gennaio. Il 5 già si erano sviluppate in una rivolta armata, il cui obiettivo non era solo una riforma sociale ma la caduta del governo. Assalti ai comandi di polizia, alle caserme e alle sedi televisive. Il municipio e altri edifici governativi rasi al suolo dalle fiamme. Sono state incendiate anche l’ex residenza presidenziale e la sede regionale del partito al governo Nur Otan. Le folle hanno poi assalito l’aeroporto, di fatto bloccandolo. Polizia e forze di sicurezze si sono arrese alla folla e sono state disarmate. Auto della polizia bruciate. I saccheggi si sono diffusi nella città. Sono incominciati a circolare video di insorti che distribuivano fucili, recuperati da armerie saccheggiate, alla folla. Era palese agli occhi di tutti che il potere quella notte era nella mani degli insorti.
Alcuni osservatori si sono stupiti della veloce distruzione di Almaty. Ma, come ci ricorda Vaneigem, “le barbarie dei riot, dell’incendio, la brutalità del popolo, tutti gli eccessi…sono esattamente il vaccino-rivolta contro le fredde autorità delle forze governative, dell’ordine e dell’oppressione gerarchica”.3
Il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha inizialmente tentato di placare gli insorti, cedendo ad alcune richieste, reistituendo ad esempio i sussidi sulla benzina. Da lì la caduta del gabinetto dei ministri . L’ex Presidente Nazarbayev viene liquidato dal suo posto a capo del consiglio della sicurezza del Paese. Altri membri del suo cerchio ristretto vengono allontanati. Alcuni arrestati. Tokayev ha provato in tutta fretta a dipingersi come il Bernie Sanders del Kazakistan, con discorsi populisti in cui denunciava gli squilibri di reddito del Paese e l’elite che lo governava.
Ma era troppo tardi per fermare l’onda. Non c’erano riforme che il presidente potesse offrire che avrebbero saziato a quel punto la crescente marea di rabbia. Il 6 gennaio, i disordini fecero scattare un intervento militare, in cui la Russia condusse altri sei stati membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTCS), l’equivalente russo della NATO. Il giorno dopo, Tokayev da l’ordine alle forze di sicurezze di “sparare a vista” nel riprendere Almaty. Si tratta della prima volta in cui l’OTCS è stato attivato. Nel nostro tempo di rivolta, questi patti di mutua sicurezza non sono altro che entità di coordinamento della contro-rivoluzione armata.4

Il Presidente Tokayev ha dichiarato che le rivolte non erano manifestazioni spontanee, ma piuttosto attività di “gruppi terroristici”.5 Queste dichiarazioni sono state riprese dal New York Times, incredulo di come un movimento di protesta potesse essersi espanso così velocemente su una fetta di territorio così estesa.6 Se lo scontro non era il risultato di una sommossa islamista accuratamente organizzata, allora doveva semplicemente essere un colpo di Stato orchestrato: in altre parole, un scontro per il potere tra due fazioni dell’elite al governo in competizione. Tali punti di vista tradiscono un fallimento comune nel comprendere come le lotte si diffondono al giorno d’oggi, un processo che dipende più dalla ripetizione e della risonanza che da un coordinamento esplicito.7
Improvvisamente, ritrovandosi con internet e rete telefonica assente e con l’aeroporto chiuso, il Kazakistan è rimasto isolato dal mondo. Era difficile farsi un’idea di quello che stava succedendo sul territorio in tempo reale. Anche oggi, gli eventi di quei giorni rimangono per noi abbastanza oscuri. L’8 gennaio il governo ha annunciato che nell’ex-capitale era stato ripristinato l’ordine, e che le acque si stessero calmando in tutto il Paese. Secondo le notizie ufficiali, nel corso delle rivolte sono stati uccisi 225 manifestanti e 19 agenti di polizia. Gli arrestati ammontano a circa 8 mila persone.
C’è una sorta di ironia della Storia riguardo questi eventi, a distanza di circa un anno dai riot davanti al Campidoglio di Washington. Sembra che la formula di Hegel debba essere rigirata: al giorno d’oggi, i grandi eventi succedono due volte – la prima come farsa, la seconda come tragedia.
Stato duplice e Rivoluzione
Le rivolte, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, hanno fatto cadere governi, ma non sono riuscite a distruggere le fondamenta dello Stato. Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Sudan e altrove hanno tutte ceduto a colpi di stato militari. Questo, però, è stato possibile perché in quelle società l’esercito già ricopre una funzione simile ad un duplice Stato.8 D’ora in poi, il “la gente vuole far cadere il regime” dovrà voler dire non solo il rovesciamento della cosca al governo, ma anche la sconfitta dello Stato duplice. Di questo è emblematico lo slogan in Sudan, “Vittoria o Egitto”.

Un aspetto della questione è tattico. Le rivolte che si sono risolte nella sequenza rivoluzione politica – colpo di stato – controrivoluzione, come quelle elencate sopra, potrebbero essere definite insurrezioni nonviolente. Benché il termine non sia soddisfacente, la strategia implicita dell’insurrezione nonviolenta è di fare pressione affinché l’esercito si schieri dalla parte del popolo contro il regime. La situazione pone quindi le forze armate in una posizione tale da trattare l’esito della rivoluzione. L’esempio migliore di questo è il caso spinoso dell’accampamento fuori dal comando generale militare di Khartoum, la capitale del Sudan, nel 2019. Ma le tattiche delle rivolte nonviolente tendono a perdere forza una volta che l’esercito ha preso il potere e decide di rimanerci. Il risultato si è reso dolorosamente chiaro all’indomani dei coup in Sudan e in Myanmar.
Obbligando la polizia e i militari ad arrendersi, confiscando loro le armi, prendendo d’assalto le stazioni di polizia e saccheggiando le armerie, distribuendo le armi alla folla, invadendo l’aeroporto e dando fuoco agli edifici del governo, Il Kazakistan, di fatto pone la questione dell’insurrezione armata. Storicamente questo voleva dire che cercare di ottenere la sconfitta dello Stato in quanto tale, piuttosto che spingerlo alla negozizione o al compromesso. Questa strada potrebbe offrire una via d’uscita dalle trappole specifiche incontrate dalle rivoluzioni del XXI secolo, fino ad ora? Le proteste nonviolente possono far cadere un regime, ma non sovvertire lo Stato. L’insurrezione armata potrebbe essere in grado di rovesciare lo Stato e non solo il governo.
Ma ciò, ovviamente, non è privo rischi. Un’insurrezione armata non solo, qualora fallisca, invita la repressione della peggior specie, ma anche quando ha successo corre il rischio di degenerare in guerra civile.

Ci sono anche ragioni storiche contingenti sul perché un’insurrezione armata appaia un’opzione preferibile in alcuni territori, ma non in altri. Il Sudan, ad esempio, è stato per decenni devastato dalla guerra civile. Lo scontro armato quindi è, comprensibilmente, visto come qualcosa da evitare. Altrove nel Medio Oriente e in Nord Africa, come in Siria, la svolta verso la lotta armata ha trasformato la rivoluzione in una guerra civile apocalittica. Prendere in mano le armi lì potrebbe avere una connotazione diversa che nel Kazakistan. Ci sono anche dei precedenti di scontri armati nella regione circostante, come nelle proteste di Euromaidan in Ucraina.
L’esperienza in Kazakistan non ci fornisce alcun modello semplice su ciò che va fatto. La rivolta è uno tra i numerosi tentativi contemporanei di navigare oltre gli ostacoli del nostro tempo. Non è chiaro come il risultato di quest’esperienza andrà a differenziarsi rispetto alle prolungata proteste di massa nonviolente in Sudan o alla svolta verso la lotta di guerriglia in Myanmar. Ma qualsiasi esperimento che raggiunge una certa soglia di intensità è probabile che ci offra lezioni importanti da sintetizzare nella prossima ondata di lotta.
Ritmi e iniziativa
L’insurrezione è un’arte, un po’ come la guerra. È soggetta a certe regole, che, se trascurate, porteranno alla rovina del partito che non le osserva. Quelle regole, deduzioni logiche radicate nella natura delle parti e nelle circostanze che affrontano, sono abbastanza semplici e la breve esperienza del gennaio 2022 dovrebbe bastare a farcele conoscere.
- Non avventurarsi nell’insurrezione se non si è pienamente preparati ad affrontarne le conseguenze. Qualora si incominciasse, rendersi conto con fermezza che bisogna andare fino in fondo.
2. Concentrare una grande superiorità di forze in un punto decisivo e nel momento decisivo, altrimenti il nemico, che ha il vantaggio di una migliore preparazione e organizzazione, abbatterà gli insorti.
3. Una volta che l’insurrezione è iniziata, gli insorti devono agire con la massima determinazione e muoversi verso l’offensiva, con tutti i mezzi necessari, senza fallire. Stare sulle difensiva è la morte di qualsiasi rivolta armata.
4. Sorprendere il nemico e cogliere il momento in cui le sue forze sono sbaragliate.
5. Puntare al successo quotidiano, per quanto piccolo (nel caso di una città, si potrebbe piuttosto dire un successo ogni ora), e mantenere a tutti i costi il morale alto.
Il partito dell’insurrezione deve cogliere e mantenere l’iniziativa, imponendo il proprio ritmo sugli eventi. Come dice Danton, de l’audace, de l’audace, encore de l’audace.
Una presenza armata
L’insurrezione ha un certo rapporto con l’uso delle armi. Non è né una questione di violenza o nonviolenza, né assomiglia particolarmente alla lotta armata. Si tratta piuttosto di mantenere una presenza armata. Il potere non viene deposto tramite l’uso di armi, ma l’avere le armi può aiutare a mantenere quello spazio aperto quando politici e polizia si ritirano. Si tratta di ottenere le armi e poi fare qualsiasi cosa necessaria per prevenirne l’uso. L’esperienza di Almaty è, in questo, esemplare: le armi sono state recuperate nei saccheggi e distribuite alla folla, in sintonia con l’idea di difendere lo spazio aperto dalla rivolta popolare. Eppure l’uso delle armi è rimasto secondario, non ha ceduto spazio a gruppi armati separati e specializzati, la cui comparsa spesso danneggia il sentimento popolare e collettivo della rivolta.
Una sconfitta politica della polizia e delle forze armate è possibile. In caso di crisi abbastanza profonda, l’esercito verrà sempre mandato a ristabilire l’ordine. Tuttavia la storia dimostra che non è mai veramente possibile sapere con certezza come agirà prima del suo impiego. Una folla consistente e abbastanza determinata può obbligare l’esercito ad arrendersi e a rifiutarsi di sparare, o anche a disertare e unirsi ai rivoltosi, specialmente se è possibile fraternizzare con i soldati. È successo proprio questo, ad esempio, al comando militare di Khartoum nell’aprile 2019.9 Questo spiega anche l’importanza storica della barricata, che crea il tempo e lo spazio necessari alla socializzazione.10 La sconfitta politica delle forze armate potrebbe richiedere degli affrontamenti, ma non bisogna arrivare ad uno scontro fino alla morte. Dall’altro canto, la sconfitta militare delle forze armate potrebbe non essere possibile. Come raccontano i recenti eventi in Siria, Libia e Yemen, la militarizzazione della guerra civile smantella in breve tempo il suo contenuto liberatorio.
Ad Almaty i rivoltosi sono riusciti velocemente a sconfiggere e disarmare polizia e altre forze di sicurezza dopo qualche breve scontro. Ma lo Stato è stato in grado di raggrupparsi e la situazione è cambiata in fretta, con l’arrivo di forze armate che erano disposte a sparare sulla folla. In ogni caso, la richiesta d’intervento estero esplicita quanto Tokayev non riponesse fiducia sulle proprie forze di sicurezza. Il punto importante è che nessuno può sapere preventivamente l’esito di una simile situazione, né c’è una qualche regola fissa che stabilisca in quali circostanze sia possibile la sconfitta politica di un esercito straniero. L’insurrezione significa sempre far un grande salto nell’ignoto.
La Geografia dell’Insurrezione
L’obiettivo generale di tutte le insurrezioni è di rendersi irreversibili. Ma come ciò può accadere? Una volta messa in moto, cosa ha bisogno di ottenere un’insurrezione? Se le precedenti generazioni di rivoluzionari erano in grado di rispondere a priori e con una certa dose di certezza a queste domande, si deve al fatto che avessero un maggiore bagaglio d’esperienza da cui trarre lezione. Il bilancio del nostro secolo è, in questo aspetto, insufficiente. Tuttavia, mentre il Kazakistan potrebbe non fornirci una chiara progettazione da seguire, ci offre un’occasione per mettere alla prova alcune ipotesi attualmente in circolazione.
In primis, spesso si argomenta che la metropoli avrà un ruolo meno prominente nelle rivoluzioni del XXI secolo.11 “Oggi è possibile conquistare Parigi, Roma o Buenos Aires senza che questo significhi una vittoria decisiva” scriveva il Comitato Invisibile. In passato, sembrava che agli insorti bastasse prendere Parigi, o Pietrogrado e Mosca, affinché l’insurrezione fosse vittoriosa. Ma i rivoluzionari che così han fatto si sarebbero poi trovati di fronte il contrasto tra la città rivoluzionaria e la campagna controrivoluzionaria, cosa che, in un modo o nell’altro, avrebbe portato al loro fallimento.
La relazione tra città e campagna è senza dubbio stata ridisegnata nell’ultimo secolo. Eppure, è degno di nota il fatto che la metropoli abbia comunque mantenuto una certa posizione privilegiata nelle rivolte contemporanee. Nonostante le rivolte spesso inizino nella periferia di un Paese, la città più grande o la capitale tende a diventarne il centro di gravità, impostando il tono e il ritmo per il resto del territorio. È qui che spesso avvengono i più avanzati esperimenti e dove tendono a succedere gli eventi con la più alta posta in gioco.12 Se ne era reso conto il presidente del Kazakistan quando disse “Una volta persa Almaty, avremmo perso la capitale e poi l’intero Paese”.

In secondo luogo, nel suo bilancio delle rivolte del 2008-2012, il Comitato Invisibile sosteneva che il movimento delle piazze si era lasciato abbindolare dalle rappresentazioni spettacolari del potere, un fatto che in seguito ha contribuito a disarmarlo. Il fatto che così tante battaglie campali delle rivolte di quel periodo siano state combattute nello sforzo di accedere a edifici governativi che sembravano importanti, è dovuto al fatto che “i luoghi del potere istituzionale esercitano un’attrazione magnetica sui rivoluzionari”. Ma quando questi aspiranti rivoluzionari sono riusciti a invadere le sale del potere, le hanno sempre trovate vuote. Se non ci sono più Palazzi d’Inverno o Bastiglie da conquistare, scriveva il Comitato nel 2013, è perché “il potere adesso risiede nelle infrastrutture di questo mondo”.13
Se proviamo a interpretare gli eventi di quel 5 gennaio ad Almaty da questa prospettiva, emergono diverse letture contrastanti. Si potrebbe dire, ad esempio, che il riunirsi spontaneamente al municipio giorno dopo giorno, il tentativo di assaltare le sedi del potere e poi eventualmente darle alle fiamme, sia semplicemente l’intensificazione di vecchi schemi, senza arrivare a romperli. Ma si potrebbe anche sostenere che nell’incendiare le strutture governative e poi andare avanti, gli insorti abbiano dimostrato di non esserne abbindolati né di essere stupiti di trovarli vuoti. Quelle sedi erano nient’altro che un’altra faccia di questo mondo, che andava distrutta.
Potrebbero esserci lezioni da reimparare ad ogni ondata di rivolte, con la differenza che forse ciò accade ogni volta un po’ più velocemente. In questo caso, potrebbe essere stato necessario agli insorti stessi fare esperienza dell’invasione delle sale del potere e trovarle vuote, in modo da volgere lo sguardo su orizzonti strategici diversi. Avrebbe allora senso che la svolta verso la presa delle infrastrutture critiche, come l’aeroporto, si sia susseguita in tutta fretta dall’incendio del municipio.
I limiti delle novità
Con l’insurrezione, così come con qualsiasi arte moderna, si ha la tentazione di enfatizzare ciò che vi è di nuovo. È facile perdere di vista il piano di consistenza. A seguito della rivoluzione del 1848, si incaricò Georges-Eugène Haussmann di riprogettare le strade di Parigi. Costui mirò a sostituire i quartieri urbani, densi e difendibili, adatti alle barricate e alla guerriglia urbana di cui aveva visto l’utilizzo una rivolta dopo l’altra, a favore di boulevard larghi e aperti. Secondo Marx e Engels, il suo lavoro fu un gran successo. Conclusero che fosse finita l’epoca delle insurrezioni e che andavano ripensate le politiche rivoluzionarie. Di diverso avviso era Blanqui, la testa e il cuore del partito proletario in Francia. Egli infatti sosteneva che la ri-progettazione offriva opportunità sia per il partito dell’insurrezione che per quello dell’ordine. C’era bisogno di nuove tattiche, non di un ripensamento totale. Si è soliti considerare questo dibattito vinto da Marx, ma l’effettivo sviluppo degli eventi potrebbe invece corrispondere maggiormente alle previsioni di Blanqui. L’esperienza più ricca del secolo insurrezionale di Parigi sarebbe arrivata solo decenni dopo la Haussmannizzazione, con la Comune.

In questo senso, potrebbe essere costruttivo ritornare brevemente alle riflessioni sull’insurrezione offerte dalle tradizioni rivoluzionare degli albori del XX secolo. A metà degli anni Venti, l’Internazionale Comunista distribuì un manuale intitolato L’Insurrezione Armata, che riuniva un attento studio delle insurrezioni riuscite e fallite ad alcune istruzioni pratiche per prepararsi alle prossime. In questo manuale si sofferma sull’importanza delle vittorie parziali. Probabilmente un’insurrezione non sarà vinta in un momento decisivo. Di contro, ogni passo fatto dovrebbe mirare a rimuovere gli ostacoli e ad aumentare la spinta del partito dell’insurrezione, al contempo minando il morale del partito dell’ordine.
Questo significa che bisogna avere cura dell’ordine in cui le cose vengono fatte. Al primo posto fra le priorità di qualsiasi insurrezione, sostenevano gli anonimi autori del manuale, vi è quella di appropriarsi delle armi e distribuirle, mentre si neutralizzano le forze armate. La seconda urgenza sta nel conquistare, occupare o distruggere le strutture governative e le infrastrutture tecniche. I dettagli specifici varieranno di molto a seconda delle latitudini. Per questo, sottolineano che è compito degli insurrezionalisti avere cura di sviluppare un piano, o almeno una lista di obiettivi e la loro priorità, in anticipo.
Il peso che gli autori riponevano sul catturare i luoghi del potere istituzionale potrebbe sembrare una reliquia di un tempo passato. Benché sembri contro-intuitivo, enfatizzano il fatto che questi siti abbiano spesso un ruolo tattico, non solo simbolico, nello svolgimento di un’insurrezione. L’importanza della presa del Palazzo d’Inverno durante la Rivoluzione Russa non era nel fatto che il potere allora fosse centralizzato in un modo che adesso non è. Oltre al suo peso simbolico, questo fatto permise al Partito di arrestare i capi della controrivoluzione, demoralizzando allo stesso tempo le poche fazioni delle forze armate ancora disposte a lottare contro l’insurrezione.

Molte cose sono cambiate nel corso dell’ultimo secolo. L’Internazionale Comunista dava molto peso al ruolo di organizzazioni di quadri disciplinati, che (almeno per quel che ne sappiamo) non sono emerse da nessuna parte in questo ciclo di lotte. Ma, per ora, la teoria secondo la quale in un’insurrezione le sedi del potere istituzionale abbiano meno importanza dell’infrastruttura tecnica dovrebbe essere trattata come un’ipotesi da comprovare e da rifinire, piuttosto che un assioma scontato.
Si potrebbe anche sostenere il contrario riguardo le novità del nostro tempo. Nella nostra società dello spettacolo, le sedi simboliche del potere potrebbero addirittura avere ancora più importanza che in passato, e ciò spiegherebbe il loro potere magnetico. Lo spettacolo prodotto dell’assalto a Capitol Hill, per quanto concretamente vuoto, è probabilmente più carico di significato di quanto ne avrebbe avuto se lo stesso gruppo di persone avesse preso di mira un luogo di reale importanza materiale. Allo stesso modo, l’assedio al Terzo Distretto di polizia di Minneapolis ha avuto pari importanza per l’infrastruttura che ha distrutto e per lo spettacolo che ha creato. Nella rivoluzione in Sudan, l’incendio della sede del Partito del Congresso Nazionale a Atbara ha svolto lo stesso ruolo spettacolare, benché quel luogo avesse pochissima importanza infrastrutturale.
Rompere il pavimento di vetro
In un registro diverso, Théorie Communiste sostiene che l’ostacolo fondamentale che affronta il nostro ciclo di rivolte non sia il salto da riot a insurrezione.14 Il limite, per loro, sta nel fatto che le rivolte non siano riuscite a penetrare il pavimento di vetro verso lo scantinato nascosto della produzione. Le rivolte tendono a emergere nella sfera della circolazione, ma dovranno tornare sui loro passi nei luoghi di lavoro per diventare rivoluzionarie.
Da nessuna parte finora ci sono state novità che puntassero seriamente in questa direzione. Forse ciò riflette l’attuale immaturità del nostro ciclo di rivolte, il vero e proprio abisso tra dove siamo e l’orizzonte rivoluzionario. Ma potrebbe anche indicare che Théorie Communiste banalmente non si stia ponendo le domande giuste. La teoria comunista tratta spesso la società capitalista come un problema logico rispetto al quale la rivoluzione o il comunismo emergono come soluzione peculiare. Ma la storia di rado si sviluppa in maniera così logica.
Nelle settimane successive alla sconfitta della rivolta, il Kazakistan ha visto un’ondata di disordini di natura operaia.15 In modo simile alla rivolta stessa, sono iniziati nella regione del Kazakistan occidentale che produce petrolio e da lì si sono diffusi altrove. Inizialmente gli operai petroliferi hanno scioperato in solidarietà con il movimento di protesta, così come i lavoratori del rame nel sud-est del Paese. Successivamente gli operai sono tornati ad incrociare le braccia rivendicando salari più alti, seguiti poco dopo dai lavoratori delle comunicazioni, dai conducenti delle ambulanze e dai pompieri.
Persino i corrieri della gig economy [NdT: economia dei contratti a breve termine] hanno minacciato ripercussioni sulla produzione. Si stanno facendo strada delle crepe nel pavimento di vetro? Al momento, è troppo presto per sapere se questa manciata di manifestazioni sono l’inizio di un’ondata di scioperi nazionali o se invece semplicemente spariranno nel tempo. Ma vale la pena ricordare, come fa notare Rosa Luxemburg, che gli scioperi spontanei sono ciò che mantenne calde le braci tra i momenti di alta e di bassa della rivoluzione del 1905.16
Eclissi e rinascita della Geopolitica
La teoria comunista è un tentativo di fornire un’analisi della società capitalista e del suo superamento. Per descrivere come potrebbe svolgersi un tale superamento rivoluzionario, si presta attenzione alle rivolte che avvengono all’interno delle società capitaliste e dei limiti che incontrano. Questi limiti sono spesso considerati come intrinseci alle rivolte stesse.
Per esempio, molti partecipanti alla ribellione di George Floyd potrebbero probabilmente dire che il movimento è stato sconfitto dallo Stato, attraverso una combinazione di repressione e cooptazione. I racconti dei rivoluzionari al momento dei fatti tendono però a riportare una storia diversa. Alcuni si concentrano sulla composizione del movimento, su come le separazioni tra etnie e classi siano riemerse al suo interno, inibendo la sua capacità di estendersi e intensificarsi.17 Altri racconti descrivono l’affiorare di un dispositivo del movimento sociale che ha catturato il movimento reale del riot, re-indirizzando la sua energia.18 In entrambi i casi, piuttosto che sottolineare come il movimento sia stato sconfitto, queste analisi si soffermano su quali ostacoli, emersi dal suo interno, esso non sia stato in grado di superare.
Un particolare distanza comporta una certa incomprensibilità. Ma poco indica che la rivolta in Kazakistan si sia disintegrata sotto il peso dei propri limiti. Giornalisti e compagni lì presenti non forniscono particolari prove sul delinearsi di separazioni interne alla rivolta o sul fatto che il riot sia stato, in qualche modo, contenuto da un movimento sociale. Gli eventi potrebbero semplicemente avere preso una piega troppo veloce perché emergessero con chiarezza dei limiti interni. Sembra piuttosto che la rivolta sia stata effettivamente sconfitta dalle forze armate dello Stato, affiancate e sostenute dall’intervento straniero.
Potrebbe essere che il nostro desiderio di analisi perfettamente ordinate e teoricamente consistenti sui limiti interni delle rivolte ci abbia portato a trascurare gli ostacoli più immediati sulla strada verso la rivoluzione. Sarà compito della teoria comunista di oggi fornire un’analisi di questi ostacoli esterni, ovvero lo Stato e la geopolitica, così come del loro sfacelo.
Un nuova Internazionale
L’insurrezione, ovunque si presenti, è una preoccupazione globale. Ciò si deve a due ragioni. In primis, da quando le rivolte viaggiano e si diffondo attraverso la risonanza, una vittoria conseguita in qualsiasi luogo potrà ispirare tentativi simili altrove. Quella che inizia come una rivolta locale potrebbe in fretta porre una minaccia all’esistenza dell’intero ordine globale della società capitalista. Questo spiega perché la sporadica esplosione di contestazioni rivoluzionarie è al giorno d’oggi contrastata da un’organizzazione internazionale della repressione, che opera con una divisione dei compiti a livello globale. In ultima analisi, sarà l’intero peso del partito dell’ordine a livello globale ad essere obbligato a sostenere l’impatto di qualsiasi insurrezione locale.
Secondariamente, in un mondo sempre più multipolarizzato, ogni crisi permette un’occasione di ripensamento degli equilibri di potere, regionali e globali. Le rivolte vengono velocemente assorbite all’interno dei conflitti tra diversi poteri globali. Non solo affrontano la forza repressiva del partito dell’ordine a livello globale, ma diventano anche un luogo in cui le sue diverse fazioni pareggiano i conti tra loro. Così le insurrezioni devono immediatamente affrontare i problemi della geopolitica.
Gli sforzi rivoluzionari di oggi sono lasciati in balìa della repressione, perché non vi è alcun potere esistente che ha l’interesse di sostenerli. Fino ad adesso, non esiste alcuna organizzazione pratica di internazionalismo rivoluzionario che li supporti.

In una situazione non troppo dissimile dalla nostra, l’Internazionale Situazionista scriveva: “Rivoluzionari ovunque, ma la Rivoluzione da nessuna parte”.19 Ma è grazie a tale messa in produzione dei rivoluzionari, come l’ha chiamata Camatte, che possiamo immaginarci una via d’uscita da questo inferno geopolitico.20 Ci permette di avere uno sguardo sulle coordinate di una geopolitica proletaria, o di una nuova Internazionale.
Ogni slancio verso la rivoluzione, ogni rivolta di massa lascia sulla sua scia una nuova generazione di rivoluzionari. Le rivolte, al Cairo, a Khartoum, a Santiago e altrove, lasciano alle loro spalle persone che non riescono a tornare indietro da ciò che hanno sperimentato. Provano dunque a trovarsi e a prepararsi. Questi nuovi rivoluzionari tentano di venire a patti col significato della loro esperienza, così come con i suoi limiti e lezioni.
Attualmente, questa riflessione si limita spesso a questioni prettamente pratiche. Quali tattiche hanno funzionato e potranno essere replicate? Quali errori hanno portato alla sconfitta? Qua e là queste tattiche, e le riflessioni attorno ad esse, si diffondono altrove, fornendo uno certo grado di coordinazione informale a ogni ondata di rivolta. Nel tempo però, ci sarà forse bisogno di rendere questo coordinamento più intenzionale, in modo da superare gli ostacoli più seri che pone il partito globale dell’ordine.
La nuova corrente rivoluzionaria, ovunque appaia, dovrà tessere connessioni tra questi diversi gruppi ed esperienze. Dovrà trovare delle basi coerenti su cui riunire le loro progettualità. Da tutto ciò dovrà emergere una qualche forza, capace di coordinare e sostenere, ovunque affiorino, gli sforzi rivoluzionari.
Onde e vortici
Le ondate di rivolta sono spesso e volentieri eventi di portata globale, ma tendono a essere considerate come fenomeni regionali. Nel 2011 o nel 2019, così come nel 1968, nel 1917 e nel 1848, sono scoppiate rivolte quasi contemporaneamente in più o meno tutto il pianeta. Allo stesso tempo i loro partecipanti erano probabilmente portati a viverle in termini di specifici piani di consistenza a livello regionale. Le rivoluzioni della Primavera Araba nel Medio Oriente e nel Nord-Africa tendevano a prestare più attenzione l’una all’altra, ricavando lezioni da ogni esperienza e al contempo ispirando rivolte simili in giro per il mondo. Nell’Asia Orientale o nei Balcani, lotte che formavano analoghe costellazioni specifiche hanno tratto lezioni prima di tutto l’una dall’altra. Ciò è vero pur se a volte può succedere che tattiche emerse da una costellazione diventino virali, ispirando anche rivolte ben distanti. Queste onde regionali potremmo chiamarle vortici.21
Il contesto più ovvio per la rivolta del Kazakistan è un vortice di rivolte nelle Repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale e dell’Europa Orientale. Esso comprende le rivolte recenti in Bielorussia, Kyrgyzstan e Ucraina. Queste sono senza dubbio le esperienze di cui gli insorti del Kazakistan sono più a conoscenza. Tale coscienza ha permesso al movimento l’elaborazione sia di un repertorio tattico, sia di un senso delle possibilità e dei limiti. Il Kyrgyzstan, dove ci sono state tre rivolte negli ultimi decenni, tra cui una che ha visto l’incendio del parlamento e di altre strutture governative, sembra essere un punto di riferimento particolare.

La risonanza tra le rivolte in questa regione non è solo dovuta alla loro vicinanza. Le Repubbliche ex sovietiche condividono una qualche forma di integrazione economica, così come l’appartenenza al patto di mutua sicurezza. Ciò significa che gli eventi di un Paese hanno un impatto abbastanza veloce sugli altri. Ma soprattutto, i Paesi hanno in comune un sistema politico ed economico modellato su quello russo. Pertanto l’avanzata vittoriosa di una lotta in un punto qualsiasi della regione mette in luce la vulnerabilità di ogni governo autoritario della stessa e fornisce un repertorio tattico che può essere riprodotto altrove. La presenza di disordini da qualche parte nella regione significa la possibilità di disordini ovunque, ponendo quindi il problema dell’intervento russo per riportare all’ordine la zona.
Guerra e Insurrezione
Si potrà allora capire meglio la crisi in Ucraina se compresa come conseguente al disequilibrio nato da questo vortice di conflitto. Durante le rivolte di Euromaidan nel 2014, il presidente filorusso e gran parte del governo sono fuggiti dal Paese. Si fece strada un nuovo governo, che iniziò a tessere un rapporto più stretto con l’Unione Europea. Nello stesso momento, intervenne l’esercito russo, annettendo la Crimea e fornendo supporto ai movimenti separatisti dell’Ucraina dell’est. Ciò ha provocato una serie di eventi che ha portato all’attuale scontro geopolitico sulla frontiera ucraina.22 Probabilmente questo processo ha avuto un’accelerata con la rivolta in Bielorussia e poi con quella in Kazakistan. Come ha scritto il Financial Times, “Avendo tenuto sott’occhio ciò che sta succedendo a Nazarbayev, un uomo da cui ha tratto ispirazione, Putin potrebbe essere ancora più alla ricerca di un successo diplomatico o, se questo dovesse fallire, militare che possa vendere al proprio pubblico.” Oppure, come scrive eloquentemente CrimethInc:
“I governi forti non staranno a guardare mentre la gente comune prende gusto a rovesciarli. Saranno spinti a intervenire, come ha fatto la Russia in Ucraina, con la speranza che la guerra surclassi l’insurrezione. La guerra è un modo per sbarrare le possibilità – per cambiare l’argomento del discorso. È un affare rischioso, tuttavia – può aiutare i governi a consolidare il loro potere, ma la storia ci insegna che può benissimo anche destabilizzarli.”
Per quanto questi eventi siano la conclusione logica del ruolo della Russia nella soppressione delle rivolte all’interno della sua sfera di influenza, le manovre di Putin sembrano anche voler allontanare le possibilità di una rivolta in patria. Essa orbita intorno al suo nucleo e la guerra si propone come possibilità di respingerla verso la sfera della politica internazionale. Lo scontro con la NATO permette a Putin di mostrarsi come lo svantaggiato che si oppone all’imperialismo occidentale, cosa che potrà, almeno brevemente, far emergere il sentimento nazionalista a casa propria. Ciò agisce a livello di sentimento popolare, ma potrebbe anche mantenere compatta la sua coalizione oligarchica a causa delle pressioni esterne. La sanzioni che ne conseguiranno serviranno da copertura per la situazione economica in ritardo di sviluppo della Russia.
Prima prendiamo Mosca, poi Berlino
Gli ostacoli del nostro tempo, in un certo senso, fanno eco a quelli di un’era passata. Anche qui non mancano paralleli storici. La minaccia di interventi stranieri era una Spada di Damocle per le rivolte del 1848. La Russia, allora il Paese più grande e più conservatore d’Europa, era anche quello meno toccato dall’ondata di rivolte in corso quell’anno e il più disposto a mantenere l’ordine. I rivoluzionari temevano che, qualora una rivolta si fosse spinta abbastanza in là da rovesciare lo status quo, l’impero Zarista avrebbe invaso per ripristinare l’ordine. Questa minaccia si averrò in Ungheria e in Romania. La Russia, in un certo senso, ebbe la funzione di esercito industriale di riserva per la controrivoluzione.
Marx avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita cercando di scoprire le condizioni di possibilità per una rivoluzione nella Russia stessa. Riteneva che la rivoluzione russa sarebbe potuta essere un necessario evento precursore affinché la rivoluzione tornasse nel continente europeo. La storia rivelò che aveva ragione. Fu solo dopo che l’impero russo venne lacerato dalle rivolte, prima del 1905 e poi nel 1917, che un’altra ondata rivoluzionaria si infranse sull’Europa e poi sul resto del mondo.
È possibile che la Russia giochi oggi un ruolo simile? Tutte le rivolte dell’Asia Centrale o dell’Europa dell’est avvengono sotto minaccia dell’intervento russo. La Russia ha fornito sostegno finanziario, militare e diplomatico alle controrivoluzioni in Siria, Sudan e altrove, ben lontane dalla sua sfera d’influenza. La Russia ancora una volta si propone come l’ultima risorsa assicurativa per il partito dell’ordine a livello globale. Come ha detto di recente un anarchico finlandese: “Putin non è solo il gendarme d’Europa, ma il gendarme di tutto il mondo”.23
L’episodio del gennaio 2022 rappresenta la terza volta nell’ultimo decennio in cui le truppe russe sono intervenute durante una rivolta nella regione. Ma questi interventi non sono che vittorie di Pirro per la Russia. Ogni intervento provoca un’avversità della popolazione locale, come è successo in Ucraina. E soprattutto, ogni volta che uno Stato specchio della Russia di Putin si dimostra vulnerabile alla rivolta popolare tanto da richiedere un intervento esterno, ciò comporta un avanzamento verso la conclusione di questa trama: una rivolta di massa all’interno della Russia stessa.
La Russia potrebbe non essere più “l’anello debole nella catena imperialista”, ma se venisse trascinata nel vortice della rivolta regionale, potrebbe essere per un certo lasso di tempo incapace di intervenire altrove. Se la Russia dovesse competere con un handicap nel gioco della geopolitica non sarebbe, in sé, la fine del gioco. Il partito dell’ordine globale è composto, in ultima analisi, da un vasto numero di potenze regionali e globali. Ma ciò può permetterci di iniziare a ragionare su una sequenza di eventi grazie ai quali sia possibile la disgregazione dell’ordine geopolitico, che potrebbe essere condizione necessaria ma non sufficiente per la rivoluzione sociale al giorno d’oggi.
Senza la minaccia di un invasione immediata, le prossime rivolte nella regione ex sovietica potrebbero offrirci un’idea migliore su cosa significhi per un’insurrezione diventare irreversibile. La prossima rivoluzione in un posto come la Siria o il Sudan potrebbe avere abbastanza spazio di respiro da ostacoli esterni, da iniziare a confrontarsi con i propri limiti interni. Ciò aumenta significativamente la possibilità di una rottura rivoluzionaria. Potrebbe anche significare l’affiorare di qualcosa di simile alla Comune. Un’innovazione in un punto qualsiasi avrà immediate conseguenza altrove, in particolare all’interno del contesto della prossima ondata globale di rivolte, mentre diverse lotte si affrettano ad adattarsi a ciò che risuona con la propria situazione. Si potrebbe arrivare molto velocemente, nel corso di questa guerra civile globale, ad un punto di non ritorno.
Fotografia iniziale: Pavel Pavlov
Note
- Usiamo qui il termine “teoria” in una senso più esteso del comune. Nel momento in cui emergono scontri di massa, tra i loro partecipanti e la società in generale avviene uno scambio critico su quello che stanno facendo e cosa ciò significhi. Questi scontri ripetutamente collidono con i loro limiti, ed essi vengono formalizzati. Viene dato loro un nome e posti come domanda a cui rispondere. La discussione poi ruota attorno al cardine del come queste questioni possano essere risolte. “Teoria” è il termine che abbiamo usato per descrivere tutto questo processo di discussione pubblica e privata di massa. Gli scritti pubblicati in giornali teorici, come questo [Ill Will Editions N.d.T.], formano uno dei momenti di questo processo in via di sviluppo.
- Sui Gilets Jaunes in Francia, vedi “Meme con la forza” di Paul Torino e Adrian Wohlleben, del febbraio 2019. Sulla rivoluzione in Sudan, vedi “Thesis on the Sudan Commune”, contributo anonimo apparso su Ill Will nell’aprile 2021.
- Vedi Raoul Veneigem, “Trattato del saper-vivere ad uso delle nuove generazioni”.
- Lo scontro attuale sull’entrata dell’Ucraina nella NATO tuttavia sembra indicare che il fine geopolitico all’origine di questi patti sia ancora lontano dall’essersi esaurito.
- Vedi The New York Times, “Revolt in Kazakhstan”
- Per esempio, vedi The New York Times, “Russian-led alliance begins withdrawing troops from Kazakhstan”
- A causa della velocità con cui i fatti si sono sviluppati e della repressione, è difficile dire con certezza qualcosa sulla composizione del movimento. Le folle ad Almaty sono state descritte da un osservatore nel seguente modo: “i manifestanti iniziali erano le persone che solitamente protestano…[ma] sono stati raggiunti dalla gioventù delle periferie…i poveri che sono scontenti a causa dell’incredibile divario sociale che esiste in Kazakistan”. Vedi Financial Times, “Kazakhstan unrest: bandits, foreign terrorists or messy power struggle?”.
- Cfr. Financial Times, “Is Qanon a game gone wrong?”
- Cfr. Anonimo, “Theses on the Sudan Commune”, su Ill Will, aprile 2021.
- Cfr. Eric Hazan, “La barricade: Histoire d’un objet révolutionnaire”.
- Per esempio, “L’insurrezione che viene”, del Comitato Invisibile.
- Ciò non vuol dire che non vi siano state esperienze significative nei movimenti esterni alla città, come la ZAD o la lotta No Tav. Stiamo dicendo solo che a livello di interezza del Paese, le rivolte tendono a raggrumarsi nelle città principali.
- Vedi del Comitato Invisibile, “Ai nostri amici”. Per una discussione simile leggere, su CrimethInc, “Belarus: When we rise”.
- Vedi Théo Cosme “The Glass Floor” in traduzione inglese.
- Vedi di Joanna Lillis, “Kazakhstan: after civil unrest, industrial unrest spikes”
- Vedi di Rosa Luxemburg, “Sciopero generale, partito e sindacato”.
- Per esempio, vedi New York Post-Left, “Welcome to the Party”.
- Vedi Adrian Wohlleben, “Meme senza fine” su Ill Will, maggio 2021.
- Vedi, dell’Internazionale Situazionista, “Ai rivoluzionari d’Algeria e di tutti i Paesi” online qui.
- Vedi Jacques Camatte, “De la revolution”. Per ulteriori spunti sulla “messa in produzione di rivoluzionari”, vedi Endnotes, “Avanti Barbari!”.
- Un esempio viene fornito da Endnotes nelle loro considerazioni della rivolta del 2014 in Bosnia: “I manifestanti in Bosnia si concepivano come parte integrante di un’ondata più grande di movimenti di tutta la regione, mettendo in pratica forma e idee inizialmente sviluppate nei Paesi vicini, come Serbia e Croazia. Tali sentori di solidarietà furono reciproci: durante le proteste, ci furono manifestazioni in sostegno al movimento bosniaco in quasi tutti i Paesi dell’ex-Yugoslavia, tra cui Macedonia, Serbia, Croazia e Moontenegro. Sembra che, negli ultimi anni, le rivolte nell’ex-Yugoslavia si siano attentamente guardate, influenzando l’una le modalità d’azione dell’altra. In effetti, prima dello stesso movimento bosniaco, molti osservarono un’ondata di proteste nella regione, mettendola a paragone con l’ondata globale di rivolte del 2011-2013, paventando anche l’idea di una Primavera Balcana. In Croazia, Slovenia, Bulgaria e Serbia i commentatori fecero notare l’affiorare di nuove modalità di protesta che, sebbene su scala minore, presentavano aspetti simili ai recenti movimenti delle piazze”. Vedi “Gather us from among the Nations”.
- Per un approfondimento vedi su CrimethInc, “Guerra e anarchici: prospettive antiautoritarie in Ucraina”
- Vedi su CrimethInc, “Ucraina: tra due fuochi”