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Lettere dall’Ucraina: parte 3

A.

Terza e ultima parte dell’intervista ad A., un compagno ucraino, datata 1 Aprile, apparsa originariamente in francese su Tous Dehors e poi in inglese su Endnotes.


C’è stato qualche cambiamento significativo della situazione nell’ultima settimana?

Anche se il ritmo dei progressi è rallentato e le settimane sono sempre più simili, c’è stato un cambiamento significativo. In primo luogo, le notizie dei contrattacchi di successo dell’esercito ucraino intorno a Kiev e l’abbandono da parte della Russia di alcune delle sue richieste nei colloqui di pace hanno rafforzato l’immagine di una campagna difensiva ucraina di successo. Quando la Russia ha annunciato che stava riducendo i suoi sforzi militari intorno a Kiev, è diventato impossibile trascurare la celebrazione ucraina di una guerra “già vinta”. Non è ancora chiaro fino a che punto la Russia sia vincolata ai colloqui di pace o se questo sia un diversivo, soprattutto perché la portata del “ritiro” è ancora da determinare. Ma dovremmo anche considerare un altro aspetto del problema. La difesa dell’Ucraina continua a fare affidamento su coscritti e volontari senza addestramento militare, mentre la NATO si prepara a fornire armi all’Ucraina ininterrottamente. Il successo su queste linee del fronte rafforzerà l’immagine di normalità nelle retrovie, ma milioni di rifugiati dovranno accontentarsi di sopravvivere a un disastro che continuerà man mano che il sostegno nei loro confronti scomparirà. Gli abitanti delle città circondate dovranno ancora rintanarsi per sfuggire ai bombardamenti quotidiani, e la Russia probabilmente userà le sue forze affrancate su alcuni fronti per rinforzare altri assi d’attacco. Contrariamente a coloro che non vedono l’ora di difendere questa falsa dicotomia tra guerra e pace, penso che la questione sia tutt’altro che finita.

Abbiamo appreso che il governo ucraino, in nome di uno stato di emergenza e utilizzando la legge marziale, ha emanato una serie di leggi che limitano fortemente i diritti dei lavoratori. I datori di lavoro possono aumentare la settimana lavorativa da 40 a 60 ore, accorciare le vacanze o cancellare i giorni di ferie supplementari. Temi che tutto questo sia la base per una trasformazione più radicale del diritto del lavoro e dei sindacati in nome della guerra?

Prima della guerra, l’Ucraina aveva già un alto tasso di disoccupazione di circa il 10%. La popolazione attiva rappresentava il 65,3% della popolazione totale. I problemi di incertezza sul futuro, che si sono manifestati nella forte presenza degli studenti durante Euromaidan, sono stati ulteriormente aggravati dalla successiva ondata di austerità nel settore pubblico e in particolare nelle università. Il lavoro nero è diffuso in tutte le fasce d’età e le pensioni misere mostrano che per una gran parte della popolazione non c’è quasi nessuna via d’uscita dalla povertà. In un paese afflitto dalla stagnazione economica e dalla disperazione, sapevi che i tuoi piani difficilmente si sarebbero realizzati, ma almeno si stavano sgretolando solo gradualmente e potevi continuare a convincerti di avere ancora qualche opzione per migliorare le tue condizioni di vita. La guerra, invece, manda in frantumi queste ultime speranze. Il disorientamento è totale, ti senti totalmente impotente, mentre ti ritrovi a nuotare in un oceano di nuove, incalcolabili probabilità. Hai perso tutto e tutto sembra assolutamente indecifrabile. Dopo un mese di guerra, non sono ancora sicuro di poter parlare di un ‘dopo’. La guerra distrugge il futuro, consuma le borse mondiali con la stessa rapidità con cui distrugge i posti di lavoro e le carriere di milioni di persone. Consuma semplicemente i nostri mondi. Mentre degli amici vengono coinvolti nei ranghi di un nuovo esercito patriottico, mentre sono sommersi dal ricordo di generazioni scomparse ma cercano di celebrare questo ultimo sussulto della storia, la possibilità che le cose migliorino sembra essere semplicemente esclusa per il momento.

Temo che le leggi “temporanee” sul lavoro abbiano semplicemente legalizzato le pratiche esistenti. Nessuno si preoccupa di questi regolamenti quando milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case e i datori di lavoro hanno sospeso i salari. Certo, il sistema economico è stato sconvolto, ma si è adattato rapidamente e continua ad affermare il suo dominio: i rifugiati cercano di trovare lavoro, ad ogni costo, con poco riguardo per gli standard di sfruttamento in un momento in cui sono sottoposti a una costrizione estrema. È difficile dire se queste restrizioni continueranno dopo la guerra. Tuttavia ciò non sarebbe sorprendente, data la necessità di aumentare la piccola parte di investimenti stranieri e di valorizzare le poche industrie redditizie. È improbabile che i sindacati si oppongano a queste leggi, dato che in Ucraina non esiste praticamente un movimento sindacale indipendente. Le organizzazioni ufficiali post-sovietiche sono strutture conservatrici svuotate di qualsiasi consistenza di opposizione. Anche durante la rivolta del 2014, non ci sono stati scioperi. È quindi improbabile che i sindacati largamente patriottici comincino improvvisamente a minare gli sforzi di guerra nazionali.

Come si inseriscono gli eventi degli ultimi anni in Ucraina nella recente ondata di rivolte nei paesi dell’ex URSS?

Da “buoni rivoluzionari” dovremmo contare “non sulle buone vecchie cose, ma sulle cattive cose nuove”. Anche se lo sviluppo del nostro versante non è affatto un processo uniforme e lineare, i movimenti di rivolta si costruiscono comunque l’uno sull’altro. Nel contesto post-sovietico, la rivolta di gennaio in Kazakistan, per esempio, è stato il primo di questi eventi ad essere segnato da saccheggi su larga scala. È stata anche la prima rivolta di questo tipo non iniziata da forze politiche tradizionali. I manifestanti del 2020-2021 in Bielorussia, la cui richiesta centrale era quella di elezioni eque, non hanno toccato le merci. I rivoltosi ucraini nel 2014 hanno saccheggiato le stazioni di polizia o gli uffici governativi ma hanno poi immediatamente restituito le armi in loro possesso. Nel 2020, le rivolte post-elettorali in Kirghizistan hanno provocato alcuni saccheggi, ma la popolazione è intervenuta per aiutare a difendere i negozi attaccati. Rimane aperta la questione di come la rivolta kazaka di quest’inverno possa influenzare i movimenti futuri in termini di rapido coordinamento di massa e saccheggio. Il movimento kazako deve anche essere visto nel contesto delle numerose rivolte attuali causate dall’inflazione, dall’aumento dei prezzi del carburante e delle materie prime.

Analizzando gli eventi post-Maidan in Ucraina, è difficile non essere travolti dalla depressione. Le marce nazionaliste e le rivolte “per correggere la legge”1 hanno attirato folle più liberali, e anche le restrizioni del Covid non hanno provocato nessuna mobilitazione significativa. Le uniche proteste che hanno avuto il coraggio di emergere in mezzo allo sventramento degli ospedali da parte dello stato e all’abbandono di ogni sforzo di contenimento del virus sono state quelle di alcuni imprenditori che chiedevano la revoca delle ultime restrizioni. Per quanto ci piacerebbe proclamare che le contraddizioni si siano finalmente manifestate, la realtà non tarda ad arrivare. Sei in autobus e ascolti un servizio alla radio su un improvviso focolaio di Covid tra gli autisti di autobus. A volte scorgi ancora le vecchie pubblicità tedesche, affisse sui finestrini degli autobus di seconda mano. Il silenzio totale è interrotto solo da urla improvvise quando qualcuno scopre che il pulsante della prenotazione della fermata non funziona più. Però, per alcune ore di notte, quando il turno del poliziotto-conduttore è finito, si può viaggiare gratis.

I sabotaggi delle linee ferroviarie bielorusse e le occasionali diserzioni russe mostrano la forza di una disgregazione disinteressata alla mobilitazione democratica. La domanda posta dai radicali non è mai stata quella giusta: “dovremmo sabotare la macchina della morte?”, come se un’approvazione radicale mobilitasse immediatamente la popolazione. Ma la domanda ha sempre avuto una risposta: “la vita non avrebbe senso se non ci fossero interruzioni nei circuiti della produzione di merci generalizzata”. L’evasione della leva ucraina rimane per ora atomizzata, incapace, con il suo naturale silenzio, di distruggere la nazione patriottica che massacra la popolazione in suo nome.

Il processo di quella guerra generalizzata che chiamiamo movimento reale potrebbe essere difficile da discernere prima della rottura, ma possiamo ancora vedere i riverberi della rivolta silenziata. I saccheggi atomizzati nelle città di tutta l’Ucraina si scontrano per ora con l’opposizione autopoliziesca della cittadinanza. Ma nell’irrompere nei distributori automatici e nei chioschi gli esclusi dal processo di valorizzazione del capitale mostrano la portata del loro odio. I chioschi simboleggiano il dominio totale del capitale sui nostri paesaggi: un veicolo ottimizzato per il commercio che limita qualsiasi movimento della persona all’interno, spesso situato nel mezzo di un boulevard sovietico, le cui dimensioni neanche Haussmann avrebbe potuto sognare. I distributori automatici sono il sogno dell’automazione negata: il tempo libero non è che una maledizione. Per ora, l’immagine della politica ucraina è quella della produzione di socialdemocratici senza socialdemocrazia, anche se le linee di faglia si stanno già mostrando.

Assumendo questa visione socialdemocratica al suo valore nominale, la descrizione di Mike Davis della cecità della classe dirigente è utile.3 Alla luce del suo quadro apocalittico in cui i miliardari distruggono “tutte le cose buone della terra”, con l’avidità che non ha più bisogno delle lunghe giustificazioni dello spettacolo, non sorprende che la classe politica, costretta a mantenere un sistema globale che distrugge la propria economia interna, sia disorganizzata e confusa. Sebbene lasci intendere che le singole politiche o i politici siano la causa di un imperialismo sempre più privo di visione, preso nella tempesta del progresso, la sua analisi identifica il problema attuale. È il nostro tempo che Benjamin aveva in mente, citando Fuchs, quando cercava tra i resti morti del movimento operaio i segni del pensiero materialista:

Le epoche di decadenza e i cervelli malati inclinano alla raffigurazione grottesca. In simili casi, il grottesco rappresenta il preoccupante segno del fatto che alle epoche e agli individui in questione i problemi del mondo e dell’esistenza risultano irresolubili

Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica pp.96-97

La deprimente alternativa di Davis all’infruttuosa “canalizzazione” delle “energie generate da Occupy, BLM e dalle campagne per Sanders” è invocare una propaganda col fatto del XXI secolo, come se potesse smussare la repressione o abolire la guerra.2 Ci rifiutiamo di rassegnarci a immaginare la redenzione del popolo ebraico nell’assassinio di un Petliura in pensione da tempo. Né ci accontentiamo di un leggero riequilibrio del potere finanziario in aggiunta a un movimento nazionalista radicalizzato come soluzione alla sofferenza ucraina. Invece, partendo dalla mancanza di speranza come descrittore di base della nostra epoca, dobbiamo cercare di tracciare la via oscura per uscirne.

I resti del movimento operaio ci oscurano la vista. Invece di cercare di rianimare il suo cadavere, dobbiamo guardare alle manifestazioni di negatività che ci circondano. Se una società di lavoratori dipendenti, ognuno alla mercé del capitale individuale, ha invocato la strategia dello sciopero e dell’autogestione, producendo alla fine solo una società di disoccupazione generalizzata, che aspetto avrà per noi la rivoluzione? Attraverso l’eliminazione dei posti di lavoro, l’aumento della mobilità della forza-lavoro e varie forme di pseudo-occupazione, lo sfruttamento è ormai una funzione del capitale sociale totale e i fragili capillari della sua circolazione sono quelli che vedremo presi di mira in futuro. Lo stesso movimento dialettico segue la storia recente della cittadinanza: a chi ha riposto speranze nella sua universalità è sfuggita la rapida estensione della condizione del non-cittadino. Anche se ogni cittadino è sempre un cittadino in divenire, sempre sospettato dell’incompletezza del suo status che deve costantemente riconfermare attraverso continui esami, uno dei volti principali del non-cittadino rimane il rifugiato. Quando l’ambiente nazionale che gli è familiare esplode in quella stessa guerra da cui avrebbe dovuto proteggerlo, come potrebbe un rifugiato fidarsi del nuovo ordine politico emergente che già lo rifiuta? Non più sottomesso al governo e alle sue tasse, il rifugiato comincia a disprezzare ogni confine e la lingua di ogni etichetta di un prodotto, che chiedono entrambi una goccia del suo sangue.

Mentre elaboriamo piani, creiamo connessioni all’interno del vulcano della guerra e invochiamo la tempesta di una rivolta, solo una domanda attende, come sempre, una soluzione pratica:

Quale esperienza potrebbe mai eguagliare quella di nascondersi insieme nei rifugi sotterranei, quando si condividono le ultime gocce d’acqua e gli ultimi pezzi di pane? Si sarà in grado di mantenere la solidarietà che si è dimostrata durante la catastrofe naturale mentre si subisce la catastrofe sociale?

note

  1. Al contrario di quelle per la conservazione di una legge o per l’annullamento di essa. I nazionalisti ucraini hanno perfezionato l’arte dell’azione spettacolare dell’incendio di pneumatici, dell’abbattimento delle statue, di richieste con nulla da opporre allo stato se non un ministro leggermente diverso e più giovane.
  2. Vale la pena menzionare che mappare questi diversi movimenti in un rafforzamento unitario del “partito storico” cancella il modo in cui ognuno di essi ha risposto a una precedente ondata di rivolta o a campagne riformiste.

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