da Ill Will
Nella prefazione all’edizione inglese de La comunità inoperosa, Jean-Luc Nancy scrive:
La tradizione [della sinistra] ha finito per darci solo vari programmi per la realizzazione di un’essenza di comunità… [ha] piegato e chiuso il pensiero dell’essere-in-comune dentro il pensiero di un’essenza… della comunità… l’identità infinita compiuta della comunità… il suo ‘lavoro’. Tutti i nostri programmi politici implicano questo lavoro: sia come prodotto della comunità che lavora, sia come lavoro della comunità stessa.
Tuttavia, come Nancy ha costantemente tentato di convincerci, il nostro essere-in-comune non ha un’essenza, né deve sforzarsi di darsene una. E in ogni caso, i programmi politici della filosofia occidentale “sono giunti al termine”.
Se il politico si è sempre basato su una chiusura fittizia, e se queste finzioni si sono oggi esaurite, la domanda per noi, scrive Nancy, è la seguente: “quale potrebbe essere una politica che non derivi dalla volontà di realizzare un’essenza?”
Nel corso degli anni ’80 e ’90, Nancy (insieme a Lacoue-Labarthe) ha evidenziato una serie di pericoli che accompagnano un tale compito. Da un lato, le incursioni di Heidegger nel nazismo hanno rivelato le insidie di uno sforzo di fondare un popolo sul recupero di un’origine mitizzata. Ma le origini non sono l’unico rischio di cui preoccuparsi. Il rovescio della medaglia dell'” archē-fascismo ” di Heidegger (come lo chiamava Lacoue-Labarthe) può essere trovato nella ricerca di Georges Bataille, in particolare negli anni ’30, di un’esperienza di comunione nell’intimità sconvolgente della perdita estatica, essa stessa modellata (attraverso la ripetizione) su un sacrificio originario. Per Nancy, lo sforzo di Bataille di risacralizzare l’esistenza, di attaccare frontalmente le barriere tra il me e l’Altro attraverso un’esperienza spersonalizzante di pura perdita, diventa alla fine un’opera di morte – proprio come lo sarà per noi, potrei aggiungere, se lasciamo che il rischio collettivo di morte in combattimento diventi la base principale delle nostre affinità. Poiché la logica sacrificale del dispendio senza ritorno rimane solo una simulazione finché non raggiunge il suo limite, alla fine deve sempre esigere la morte del sacrificatore e del sacrificato, in una logica crescente e insostenibile di orrore fusionale.
Da questo punto di osservazione, e nonostante le loro enormi divergenze politiche e affettive, Heidegger e Bataille rappresentano i poli inversi ma surrettiziamente legati di un dispositivo che intrappola il nostro pensiero di comunità in una problematica di fondo o “fusione” di cui la morte rimane il modello tacito.
Al contrario, l’esperienza della comunità per Nancy è l’opposto di una corsa a capofitto nell’infinito dell’intimità oscura. È un’esposizione a un eccesso inappropriabile, un’esteriorità o un’estraneità a se stessi. Il comunismo, potremmo dire, procede dall’affermazione dell’impossibilità di una pura immanenza o comunione. Nancy chiama la coscienza di questa impossibilità di intimità totale “comunicazione” o “estasi”, e molti suoi molti libri che la descrivono – compreso il suo storico scambio con Maurice Blanchot negli anni ’80, che andrebbe considerato una lettura imprescindibile – rappresentano contributi decisivi e originali al pensiero insurrezionale contemporaneo.
Allo stesso tempo, tuttavia, il compito di una spietata decostruzione della comunità si è troppo spesso prestato nella pratica a una cinica capitolazione a schemi liberal-democratici eticamente asettici di tolleranza e “rispetto” per l’Altro. Se vogliamo seguire le orme di Nancy, e ripoliticizzare la teoria esistenziale della comunità intorno a una nuova serie di domande e problemi destituenti, dovremo spingerci oltre la scelta forzata tra una ritirata mitologica sulle archē-finzioni da una parte, e un quietistico scetticismo “decostruttivo” dall’altra. Non dobbiamo cercare né la restaurazione né la ritirata. Cosa dobbiamo dunque trarre dalla concezione an-archica di Nancy dell’esistenza come “com-parizione”?
Come immagine dominante della politica, la tradizione della sovranità si è sempre basata su un’antropologia filosofica di una vita bisognosa e desiderosa di governo. A questa intuizione essenziale, condivisa da molti pensatori post-’68 (e dagli anarchici prima di loro), Nancy aggiunge un’ulteriore osservazione: il naufragio della politica classica ha origine, egli sostiene, nel suo sforzo di costituire una comunità di esperienza comune e di appartenenza. Fondare o radicare una comunità significa invariabilmente attribuirle un senso, uno scopo e una posizione, sia metafisica che antropologica. (Qui, anche l'”anarchismo” deve fare attenzione). Costituire una comunità significa codificarla, dare forma e funzione a un insieme di esseri (presumibilmente) comuni, e quindi istituire un regime normativo di legittima appartenenza.
Poiché Nancy non vede alcun modo di codificare una comunità che eviti questa archē-violenza, il progetto della politica parlamentare occidentale è, a suo avviso, fondamentalmente morto.
Eppure, vogliamo vivere insieme, e gli uni con gli altri. Per molti di noi, questo non implica alcun interesse a governare gli altri, o noi stessi. Vogliamo diventare, e rimanere, ingovernabili. Questo impulso di base è una corrente propulsiva di molta teoria contemporanea. Moten ne parla come di una spinta verso una “vita non conquistata”. Agamben lo descrive come una “potere destituente” o una forma di vita. Jared Sexton evoca una politica “non sovrana” o “senza base”, una politica senza fondamento. Cos’è che riunisce questi elementi eterogenei della corrente ante-politica o destituente contemporanea?
Un modo per rispondere alla domanda sarebbe quello di sottolineare la loro comune ostilità verso i tre punti essenziali della politica costituente che, mi sembra, siano i seguenti:
- l’antropogenesi1, o l’astrazione di una figura relazionale dell’Umano elevata al di sopra delle sue modalità concrete di vita come loro presupposto naturale o divino;
- il populismo affettivo2, o la chiusura linguistica ed empatica dell’esperienza intorno ad una cornice di base dell’esperienza affettiva;
- l’innocenza3, come moneta della posizione morale o dell’appartenenza legittima attorno alla quale una comunità traccia i suoi confini, e convalida le sue azioni.
Se il comunismo oggi è un’ante-politica, sarà necessariamente in-umano, in-tollerante e partigiano. Parla e agisce non in nome di un’umanità morale, ma di mondi, non cerca la conquista di istituzioni, ma una proliferazione di forme vitali.
Se una destituzione del potere può avere successo, essa deve procedere prima di tutto da un rifiuto della nostra stessa legittimità, cioè della nostra posizione all’interno di quella sfera di astratta “innocenza politica” a cui il Recht giuridico fa appello. Assicurarsi una tale posizione o “punto di vista” (Moten) ha sempre significato abbandonare o passare oltre il nostro contatto sensibile con gli altri esseri viventi, in favore di un appello all’elemento presunto “neutro” della legittimità morale e giuridica. È in questo senso che la politica parlamentare si fonda, fin da Hobbes, su una distruzione preliminare dell’esperienza, la cancellazione di ogni verità situata. Al contrario, da Gezi Park al Sudan o alla ZAD, ogni dichiarazione del comune, ogni giuramento destituente sta da qualche parte, si inscrive nel luogo che ha costruito. Poiché tale giuramento non procede da un terreno generico ma da un attaccamento singolare, porta in sé una (ri)distribuzione immanente del tollerabile e dell’intollerabile. In questo modo, il comune annuncia una rottura con gli schemi del populismo affettivo di cui la politica costituente non può fare a meno.
Gli scritti di Jean-Luc Nancy ci aiutano sia ad apprezzare che ad affermare la distanza che separa il “comune” che scopriamo nelle rivolte contemporanee e attraverso di esse (e questo, nonostante la negatività che le catalizza) dalle finzioni costituenti su cui la politica occidentale ha basato le sue immagini di appartenenza. Per Nancy, c’è una differenza qualitativa tra l’esteriorità che definisce lo spazio della Politica [la politique] o gestione sociale, da un lato, e il comunismo dell’esistenza vissuta dall’altro. Come spiega Jason Smith,
Il comunismo in Nancy è una proposizione ontologica, che riguarda la nostra finitudine o fatticità. È postulato o affermato come un fatto: “prima di tutto, siamo in comune”. L’esposizione (le politique) precede ed è recalcitrante (persino “resistente”) sia alla “società” che alla politica (la politique) concepita come “gestione delle divisioni sociali”, degli interessi, delle distribuzioni di potere. L’esposizione o la spaziatura dell’essere-in-comune è la ‘verità di ogni comunità data’, che resiste a qualsiasi riduzione a sostanza o somma da dividere e scambiare, cioè resiste a qualsiasi sussunzione sotto un’equivalenza generale.4
Più o meno come faranno più tardi Moten e Harney nel loro Undercommons, Nancy sosteneva già negli anni ’80 che la politica non coincide mai di fatto con la nostra esistenza-in-comune, che avviene sempre in ritirata da essa. Oggi, mentre il crollo della legittimità governativa espone “quali gambe rognose hanno sostenuto il regno della frode e della menzogna” (Peter Weiss), il pensiero di Nancy ci invita a ripensare la relazione tra sé e l’altro, singolare e comune, a partire dalla nostra esperienza intima ma pre-personale di un contatto-senza-relazione, o ciò che egli chiama la “spaziatura” del mondo. Se c’è un comune nel comunismo, un’esperienza di condivisione che lo definisce, deve procedere da un senso profondo della nostra stessa esistenza come irrimediabilmente fuori da noi stessi, come dislocati in un mondo inappropriabile, un senso profondo della nostra stessa infondatezza. “Essere esposti”, scrive Nancy, “significa essere ‘posati’ nell’esteriorità… un fuori nella stessa intimità di un dentro”. Per questo, se il comunismo coincide con un’esperienza di verità, ciò che è proprio della sua esistenza è rivelarsi a noi stessi e all’altro solo attraverso una reciproca ‘espropriazione’. Mentre la comunità che “diventa una cosa sola (corpo, mente, patria, Leader . . . ) perde necessariamente l’in dell’essere-in-comune, e cede il suo essere-insieme a un essere di insieme”, la comunità del comunismo deve essere “senza presupposti”, poiché “è fatta di ciò che si ritira da essa: l’ipostasi del ‘comune,’ e il suo lavoro”:
La comunità ci è data – o, siamo dati e abbandonati in funzione della comunità: è un dono da rinnovare, da comunicare, non un lavoro da fare o da realizzare. Ma è un compito …. (un compito e una lotta, questa lotta di cui Marx aveva il senso – Bataille l’ha capito – e il cui imperativo non può assolutamente essere confuso con una teleologia ‘comunista’…)
Ciò che è comune, ciò che ci lega irrevocabilmente al mondo e all’altro, è un legame la cui attività ci slega e ci sradica, mentre ci sottopone all’esposizione incolmabile di un Mit-, un essere-con il mondo e l’un l’altro. Affermare il comune deve significare anche impegnarsi nella distruzione di tutte le misere finzioni rappresentative e dei dispositivi ottundenti che intervengono e mutilano la nostra singolare esposizione al mondo, che sterilizzano il nostro contatto con la realtà e ci mantengono in una condizione di sospensione indefinita.
È in questo spirito che piangiamo la perdita di Jean-Luc Nancy non solo come luminare e maestro, ma come compagno, come amico
.
— Adrian Wohlleben 24 Agosto 2021
Note:
- su questo termine cfr. Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale e Che cos’è la filosofia?
- termine coniato nel manifesto “Fire to the Houseprojects.” disponibile qui.
- Jackie Wang, “Against Innocence,” inizialmente pubblicato in LIES Journal.
- Jason Smith, “Nancy, Justice and Communist Politics,” in Jean-Luc Nancy: Justice, Legality, and World (Continuum, 2011).