Traduzione dal francese, qui l’articolo originale: Contrepoints
I.
Si dice che l’ansia ecologica sia il male della nostra generazione. Quando il flusso di informazioni catastrofiste sul cambiamento climatico risuona con la sensazione che questo mondo è impossibile da cambiare, andiamo in tilt. Siamo ossessionati da tutto ciò che ci circonda e che possiamo controllare: rifiuti zero, veganesimo, trasporti pubblici per i poveri, auto elettriche per i ricchi, strade verdi per i buoni cittadini, marce sul clima, perché dobbiamo agire insieme, come società.
Assistiamo a una terribile trasfigurazione. La nostra preoccupazione per il mondo viene trasformata in patologia, e il nostro desiderio di cambiarlo viene incanalato in proposte sterili. La forza delle scappatoie che ci vengono proposte proviene dal fatto che sappiamo di essere legati al resto del mondo vivente. Che siamo abitati dalla preoccupazione di difendere ciò che è sacro, e dal desiderio di vivere da qualsiasi altra parte che non sia in mezzo a un mare di cemento, mangiando verdure OGM e carne dei macelli industriali. Queste scappatoie sviano l’autenticità della nostra sensibilità, il sentimento che ci pervade spingendoci ad agire, di trovare un modo di vivere che non distrugga il vivente ma che generi più vita.
LA CRITICA CHE VA PER LA MAGGIORE a sinistra, che ritiene che le azioni individuali siano inutili e che la sola strada da percorrere sia quella dell’azione dei governi non ci interessa, tanto quanto la colpevolizzazione e la pulsione al sacrificio tipica dei gruppi di attivisti.
L’ipotesi che vogliamo elaborare e portare alle sue conclusioni politiche, si prefigge di inventare modi di vivere in questa epoca catastrofica e contro di essa. Visto che resta da chiarire come farlo, iniziamo qui a dipanare la matassa.
Mentre ci si può rallegrare del fatto che centinaia di migliaia di persone sentono questo desiderio di agire, impegnandosi a cambiare le loro vite, uscendo dalla loro zona di comfort e correndo dei rischi; questa energia finora è stata deviata. Dobbiamo riconoscere che la cementificazione del mondo, la distruzione di tutti gli esseri viventi e la nostra crescente incapacità di produrre per nutrirci non sono accidentali; sono progetti politici di espropriazione al servizio della creazione di ricchezza. Porvi fine non sarà facile. Finora, i nostri sforzi sono stati catturati da soluzioni ridicole di ogni sorta, tanto impotenti quanto irresponsabili, e nulla è cambiato.
Di fronte alla “crisi”, di solito ci vengono offerte due proposte: da un lato, un ambientalismo attivista basato su una serie di richieste, in cui i nostri governi vengono sollecitati a intervenire; dall’altro, un ambientalismo individualista in cui si modificano le proprie scelte quotidiane come consumatori. Queste due forme di ambientalismo si ricongiungono di fatto nella loro inefficacia. Il nostro obiettivo non può essere semplicemente quello di far sentire la nostra voce, cercando di arrivare all’opinione pubblica: tutti sono già consapevoli del disastro. I media, gli ingegneri, i politici e i padroni sono ben consapevoli della grandezza del problema e ognuno cerca di trarsi d’impaccio. Detto questo una pratica politica ecologista non deve limitarsi a lavorare per “prevenire” il cambiamento climatico.
Il clima sta già cambiando, come attestano ogni ondata di caldo eccezionale o di neve, ogni uragano e incendio boschivo. In entrambe le proposte, la nostra capacità di agire è così limitata che i gesti che compiamo non hanno praticamente alcun impatto sulla portata della catastrofe.
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO ha cicli di feedback a lungo termine. Anche se oggi fermassimo la produzione di gas serra, ci sarebbero ancora decenni di violenti cambiamenti climatici davanti a noi. La questione non è tanto come rallentarli, ma come abitarli. Il cambiamento climatico sembra aprire per l’economia e il governo due opzioni: o minerà la loro legittimità o stringerà la loro presa sulle nostre vite. Ad oggi l’esito rimane indeterminato.

Crediamo che la lotta ecologista debba essere combattuta su due fronti, di fatto inseparabili. Deve innanzitutto interrompere il corso della normalità economica, l’economia dello sfruttamento e della distruzione degli esseri viventi. Danneggiare, e attraverso forme di attacco – blocchi e occupazioni, scioperi e sabotaggi – elaborare altri modi di vivere. Legarsi ai luoghi e inventare altri modi di essere, nuove sensibilità, nuovi rapporti con noi stessi e con gli altri, che ci sono cari e per i quali noi lo siamo.
E soprattutto imparare a difendere queste relazioni, posizione che ci riporterà inevitabilmente in conflitto con l’economia. Dobbiamo imparare a organizzarci sulla base dei nostri bisogni e poi rispondere gradualmente alle questioni collettive che nascono dalla confluenza di vita e lotta, allontanandoci a poco a poco dalla separazione funzionale propria dell’attivismo classico.
Le posizioni ecologiste tradizionali suggeriscono che l’impegno militante si posizioni a livello dei valori, dell’orientamento e dell’azione. La lotta ecologista non consiste anche e soprattutto in un lavoro di restaurazione della nostra presenza al mondo, e quindi della nostra capacità di agire la nostra potenza in una situazione e su di essa? Se nell’ambientalismo classico tale assunto sia spesso assente, ci sembra che sia questo il perno della lotta ecologista.
Qui vediamo il gesto come un vettore: l’etica è il suo orientamento mentre la potenza è la sua grandezza. I tempi ci impongono l’orientamento, ma è solo rimettendo al centro delle discussioni ciò che chiamiamo potenza che l’ecologia può diventare propriamente politica.
Un orientamento senza grandezza, un’etica senza potenza rimane una morale. Non si preoccupa di ciò che implica la realizzazione di una vita buona, non cerca di agire sul mondo. È interessato solo a designare ciò che fa e ciò che lo circonda come buono o cattivo. Inteso in questo modo, una logica moralista non porta a cercare e sperimentare altri modi di vivere e lottare, ma solo ad affetti e giudizi confortanti (faccio la mia parte!) o colpevolizzanti (siamo dei mostri…). È la differenza tra giudicare che avere un pick-up è una scelta barbara da inquinatore e sapere che è un mezzo per costruire l’infrastruttura che ci permette di vivere diversamente. Per arrivare anche noi a imboccare le strade che vengono utilizzate nel processo di estrazione delle risorse, per bloccare l’economia sulle terre espropriate che abitiamo.
È anche la differenza tra sentire un senso di panico e di urgenza combinato con un senso di impotenza e sapere che gli elementi che compongono la vita magica sono già lì ad aspettarci, sapendo che stiamo agendo su tempi lunghi.
CHE COSA CHIAMIAMO “LA FINE DEL MONDO”? La fine del mondo industriale è “la fine del mondo” (come sostiene la collassologia) o quello che chiamiamo Impero moderno/coloniale è esso stesso l’attuazione della “fine dei mondi”, la creazione di un non mondo completamente liscio e senza esperienza? Piuttosto che chiedere, mobilitando affetti nichilisti, “un’altra fine del mondo”, pensiamo all’apocalisse come a un processo che è all’opera dall’inizio della colonizzazione delle Americhe e cerchiamo di porre fine alla fine del mondo. Immaginiamo cosa potrebbe contenere la fine della fine del mondo: in breve, la riparazione di questo mondo crea molteplici mondi.
GIÀ NEGLI ANNI SESSANTA, gli studi sulle impressioni della “fine del mondo” hanno fatto una distinzione tra apocalissi senza escaton e apocalissi escatologiche. Le apocalissi escatologiche sono le concezioni della fine del mondo culturalmente e storicamente più diffuse: vedono la fine del mondo come l’annuncio di una rigenerazione dell’esistenza – millenarismo, profetismo decoloniale, messianesimo giudeo-cristiano. Queste sono delle fini del mondo che, in un certo senso, stanno finendo. Il tono apocalittico caratteristico della modernità occidentale – tematizzato come nauseabondo, assurdo – di cui l’ansia ecologica è una nuova manifestazione, produce tipicamente impressioni di una fine del mondo senza fine, a parte l’estinzione della specie, che non può, in senso stretto, essere considerata come fine.

II.
Per superare l’istantanea dell’attualità come crisi imminente e permanente, occorre costruire in opposizione agli ambientalismi impotenti, un’ecologia politica in grado di raccogliere la sfida che ci troviamo ad affrontare. Sviscerare la trama di fondo su cui si giocano le proposte cittadiniste e statali di quelli che vogliono “salvare l’ambiente”, come di quelli che cercano di controllare le risorse per gestirle meglio, ovvero di amministrare la catastrofe.
ALTRIMENTI come vorresti parlare della “natura” a dei soggetti metropolitani, quando i soli viventi non-umani che percepiscono sono o degli elementi del paesaggio, o degli animali domestici che li aspettano per tutto il giorno, o dei parassiti di cui hanno paura? Imparano dai social network che per salvare le tartarughe bisogna rinunciare alle cannucce di plastica.
Attualmente, l’umore generale fa riferimento a ciò che definiamo un’ecologia dell’assenza. Partendo da tale prospettiva, dovremmo difendere “La Natura”: un oggetto distante, costituito da specie e da habitat che sono lontani e separati da noi, dalle nostre realtà. Qui la problematica è di carattere statistico, ci vengono agitati dei dati, le percentuali dei gas serra, un certo numero di gradi in più, un tot di specie che spariranno. Quello che viene messo sul piatto è una rappresentazione astratta, un’immagine della Natura che ci dicono presto sarà sfigurata, che tutto ciò è molto triste e poi, che questo orrore è colpa nostra. Questa catastrofe ecologica non è territorializzata: vale dappertutto e quindi “ognuno deve fare la sua parte affinché le cose cambino”. Puntando il dito contro tutti, i colpevoli si confondono sparendo tra la folla.
Persino l’uso del termine “ambiente” rimanda alla separazione tra l’umanità e il resto degli esseri. Designa ciò che circonda “l’Uomo”, ciò da cui si distingue. Questa concezione del mondo, lungi dall’essere universale, si inscrive in questa separazione, specifica della modernità coloniale, attraverso cui l’umano viene strappato da tutto il vivente e dal non-vivente. Se l’ambientalismo è il prodotto di questa separazione, è perché, una volta isolato, l’individuo può “scegliere”, può liberarsi da ogni responsabilità nei confronti di ciò che gli permette di vivere, dimenticando il carattere fondamentalmente relazionale di ogni esistenza. O meglio, può decidere di considerare l’ambiente come un oggetto da proteggere, da salvare e credere così di creare un legame tra sé e il “suo ambiente” attraverso l’artificio della propria volontà. In entrambi i casi, si ha l’umano da una parte e la “natura” dall’altra: sia se la sfruttiamo che se la difendiamo. Ma non viene mai incarnata, abitata o ritrovata. L’ambiente resta del tutto separato da noi, sia se viene sfruttato che difeso.
È da questa trama di fondo che sono sorti questi due ambientalismi, l’individuale e il governamentale. Due melodie distinte, che si accordano perfettamente. Il primo è quello delle docce di 5 minuti, dei calcolatori per le emissioni, dei blog zero-rifiuti. È quello di chi compra il tofu bio che proviene dalla deforestazione dell’Amazzonia piuttosto del tofu che proviene dalla deforestazione dell’Amazzonia ma che non è bio. Da tale ambientalismo individuale, non sorge alcun orizzonte politico. Esiste unicamente il consumatore, solo e disorientato con il suo potere di acquisto come unica leva di fronte all’ecocidio.
Il secondo è quello della buona gestione della catastrofe, dello Stato come eroico attore che giunge a salvare l’umanità, gli orsi-polari-caribù-forestali-beluga, sistemando un’economia mal regolata con l’aiuto di tasse sulle emissioni di carbonio e attraverso un progressivo blocco dei veicoli inquinanti. Lo Stato come apparato di cattura del sentimento ecologista, riesce inoltre a far passare ogni politica come una misura che finirà per favorire la transizione verde. E visto che sarà l’Economia a permettere di effettuare la transizione, ogni misura che favorirà la salute dell’Economia favorirà la transizione. Come costruire un oleodotto per finanziare le energie verdi, o costruire il terzo collegamento tra Québec e Lévis per ridurre il traffico.
IL PRIMO RICONOSCE l’importanza degli orientamenti politici dell’economia, ma ignora l’importanza dell’Economia nell’apparato di governo. Il secondo vede nel quotidiano la possibilità di cambiamenti concreti, ma è limitata nella sua estensione dalla grandezza del potere d’acquisto di ciascuno. Strutturare l’offerta (vietare, regolare, tassare) o agire a livello della domanda (boicottare): la logica dell’ecologia resta per ora largamente all’interno di considerazioni di carattere economico.
È consuetudine criticare ognuna di queste prospettive accusandole di non concentrarsi sul giusto livello di analisi: per i primi bisogna concentrarsi sui problemi macroscopici, per gli altri bisogna accontentarsi dei cambiamenti su piccola scala per creare dei cambiamenti più grandi. Il problema non risiede nel livello di analisi, ma nel fatto che in entrambi i casi il pensiero si sviluppa sul piano dell’economia. La principale caratteristica del liberalismo, il pensiero per eccellenza dell’Economia, è proprio quella di fare della concorrenza l’unica forma di relazione antagonista.
Per sviluppare un pensiero realmente politico dell’ecologia, la nozione di conflitto deve ritornare al centro delle nostre preoccupazioni. Deve essere tirata fuori dal regno economico, per collocarsi non solo nella “politica”, ma nella vita stessa, intesa come fenomeno politico. Perché non si tratta di convincere né di “vendersi meglio” e non si tratta di vincere sul piano del dibattito o della concorrenza. Si tratta di difendere le forme d’esistenza da coloro che ne negano le possibilità. Si tratta di lottare e di sconfiggere il nemico (che assume diverse forme, sia in noi che fuori di noi).
IN VERITÀ’ L’ECONOMIA è segretamente politica: la guerra di annientamento condotta contro le forme di vita che le sono antagoniste non è condotta apertamente, ma con insidia. Gli specialisti del colonialismo di popolamento mostrano in modo netto e preciso che le economie del Quebec e del Canada perseguono la logica politica dell’eliminazione delle comunità autoctone, attraverso l’integrazione nel corpo sociale maggioritario (cittadinanza, municipalizzazione delle riserve) o attraverso forme di eliminazione fisica. Che questa sia la forma più intensa dell’ostilità dell’economia contro tutto ciò che le è esterno non deve limitarci nella comprensione della sua effettiva estensività. Una cosa è rilevare il carattere politico, ovvero conflittuale – quindi guerriero – dell’Economia, un’altra è agire di conseguenza.
Queste ecologie dell’assenza sono il prodotto dello spettacolo e riguardano esclusivamente la rappresentazione della “natura”, quella che vediamo in televisione o su internet. Alimentano la nostra mancanza di potere sulle nostre vite, l’assenza del nostro legame con ciò che ci nutre e ciò che produciamo, al nostro essere amputati da un mondo, al dolore di sentirsi strappati. Si iscrivono in quel deserto che è l’economia e hanno come condizione di possibilità la nostra atomizzazione. In questo contesto, difendere una posizione “ecologista” non implica dunque un’effettiva territorialità, una presenza, una riconnessione con un mondo popolato di rapporti, in breve, una possibilità concreta di essere conflittuale. Ecco perché questi ambientalismi, statali o cittadinisti, non riescono a individuare come problema nient’altro che noi stessi. Su questo punto degli amici scrivevano di recente: “è una lotta senza conflitto, senza antagonismo (quindi, non è una lotta). Questi cittadini pensano di essere tutti d’accordo e tutti colpevoli (il che, peraltro, è caratteristico dell’essere dei cittadini)”.
Da questa concezione del mondo – senza colpevoli a parte noi stessi – può emergere solo una politica votata al sacrificio. Una politica del pentimento, della tristezza. Smettere di prendere l’aereo per viaggiare mentre i ricchi si spostano quotidianamente in jet privato, riscaldare di meno i nostri appartamenti e le nostre case spazzate dalle correnti d’aria invernali, rifiutarsi di prendere un volantino durante una manifestazione mentre i grandi giornali capitalisti stampano ogni giorno milioni di pagine dedicate unicamente alla pubblicità. Oppure, prendere la strada dell’attivismo e incatenarsi a qualcosa fino a farsi arrestare, torturarsi in piazza e tentare di scioccare i media e i politici, che dimenticano tutto in un battito di ciglia.
In quanto vittime dei cambiamenti climatici, arriviamo rapidamente a identificare noi stessi come colpevoli. Se il peccato originale che ci precede è quello di aver sporcato la “Natura”, è vero anche che siamo stati messi al mondo come peccatori che ripetono i gesti proibiti. Le nuove forme sacrificali presenti nell’attivismo ambientale, sebbene possano dare la sensazione di espiare gli errori commessi, non faranno avvenire un mondo migliore.
Questa logica politica si iscrive anche in quella della rivendicazione, quella dei diseredati che elemosinano, che sollecitano, che aspettano sognando a occhi aperti. Chiunque rivendichi qualcosa sa di aver già abbandonato la presa che aveva sulla situazione, o che gli è stata strappata dalle mani, insomma sa di essere stato privato della possibilità di agire. Tra una petizione che esorta i governi a fare qualcosa e l’auto incatenamento davanti ai parlamenti, la differenza è solo di grado, le due posizioni si uniscono sotto l’egida della debolezza.
Ogni potenza è inseparabile dalla capacità di esserne affetti. Troviamo delle potenzialità nella nostra sensibilità condivisa: questo senso di urgenza che ci spinge a cercare dei nuovi modi di vivere, a voler cambiare questo mondo, questa sensazione di farne parte che ci spinge ad agire, persino a rischiare noi stessi. Come scioglierli? Le strade suggerite dall’attuale ordine – chiamatelo come volete, Impero, capitalismo, modernità-coloniale, supremazia bianca, mondo cosmofago – ci appaiono come cattura di quegli affetti che possono rendere la vita una buona vita.
Né colpevoli, né vittime: abitiamo i cambiamenti climatici. Vediamo che questo momento di disillusione in rapporto alla direzione presa ormai secoli fa è anche un momento di infinite potenzialità. Ognuna possiede in sé un’infima possibilità di arginare la catastrofe. Organizzando il pessimismo, che è l’affetto fondamentale di quest’epoca, dandogli una consistenza creatrice, possiamo sperare di far avvenire altri mondi. Dobbiamo innanzitutto rompere con questo mondo qui. Non abbiamo scelto di essere gettati in un mondo che sembra votato alla propria distruzione, tuttavia possiamo scegliere se continuare con esso o porvi fine.

L’unica opzione percorribile sembra quella di diventare responsabili di questa situazione e in seno ad essa. Nel cosiddetto “Nord America”, i pensatori della rinascita indigena scrivono riguardo la questione della responsabilità. Per loro e noi, la responsabilità si impone come possibilità della vita stessa, quella che viene compresa come esigenza di una buona vita. Responsibility is to live in a way that promotes rebirth, renewal, reciprocity, and respect [responsabilità significa vivere in un modo che promuove la rinascita, il rinnovamento, la reciprocità e il rispetto.] Questa responsabilità è intrinseca alle relazioni che ci legano agli altri esseri umani e al resto del mondo, e l’interdipendenza è al cuore del modo di concepire ogni vita. In questo senso, è distinta dalla responsabilità come errore, colpa, vergogna, poiché non è imposta da un’autorità legale o morale, ma piuttosto emerge dall’esigenza di intrecciare la nostra vita e quelle degli altri, il mondo in cui siamo e il resto dell’universo.
Liberarsi dall’influsso della colpa (di ritrovarsi in un mondo che divora gli altri) è una risposta necessaria alla situazione climatica, non come ingiunzione morale, ma come un fatto che riguarda il nostro modo d’essere. Per esistere in atto, per vivere una vita che ne rigenera altre, che ne genera di nuove, una vita che ci sostiene, non possiamo più permettere che le nostre sensibilità e le possibilità che queste contengono siano catturate dai dispositivi del potere. I nostri modi d’azione devono fare a meno delle istituzioni e la nostra forza deve misurarsi con la nostra capacità di prendersi cura gli uni degli altri, di prendersi cura del nostro mondo e di crescere nella nostra conoscenza di esso.
È quando le comunità affermano di essere parte di un territorio, di una foresta, di un fiume, di un angolo di quartiere e che sono pronte a combattere, che la possibilità politica dell’ecologia appare in modo chiaro. Per rendere l’ecologia veramente politica bisogna porre la seguente domanda: cosa permette a questa o quella comunità di vivere una buona vita, di accrescere la propria felicità? E al contrario, cosa la minaccia, cosa le rende impossibile la vita? Il conflitto, presente in ogni configurazione politica, consegue essenzialmente dalla risposta a queste domande. Senza distinzione tra amici e nemici della vita che abita un territorio, senza presa in carico della potenza necessaria alla vittoria in seno a un conflitto, l’ecologia è votata a restare una mera questione di principio.
SE PER LUNGO TEMPO è sembrato che l’infrastruttura, la lotta politica, l’organizzazione e l’allargamento dovessero impegnare la maggior parte delle nostre energie, è forse l’altra dimensione, la dimensione di una piena presenza, quella da cui siamo più distanti. Le nostre relazioni, i nostri appartamenti collettivi, le nostre case in comune e le nostre riunioni politiche, le abbiamo abitate per troppo tempo da fantasmi, come delle presenze stregate dai nostri obblighi, dai nostri obiettivi, dagli dispositivi-schermo di cattura dell’attenzione.
La paura dei militanti riguardo l’utilizzo del telefono come apparecchio di sorveglianza non circoscrive che un’infima dimensione di ciò che rende questi oggetti pericolosi. Le macchine ci propongono una realtà intensificata, vicinanze e intimità distillate, palpabili alla velocità dell’ immediato. Se questi frammenti attinti dalla vita, poi tradotti attraverso degli schermi di luce sembrano non chiederci nulla, come mai le nostre macchine sono stranamente vive, mentre noi sembriamo terribilmente inerti di fronte a ciò che ci circonda?
Il nostro pensare una buona vita deve impegnarsi ad analizzare minuziosamente i meccanismi (degli oggetti, ma soprattutto degli usi di tali oggetti) che ci allontanano da una piena presenza al mondo. Coltivare una maggiore attenzione verso ciò che ci riconnette alle cose, alle entità, alle abitudini, alle relazioni che sorreggono questo mondo che abitiamo e che sappiamo essere fragile, e senza le quali potremmo semplicemente perderci, ecco ciò che può fornirci una riflessione sulla magia in rapporto all’ecologia.

III.
L’ecologia non è un partito, ma un paradigma. Permette di collocare gli ambienti di vita nella loro interdipendenza, nella loro relazione reciproca. L’ecologia in quanto tale non implica necessariamente bloccare le infrastrutture del mondo capitalista, né impedire lo sfruttamento del petrolio o la distruzione dei territori causata da progetti di estrazione mineraria. Non afferma la necessità di reimparare a essere inseparabili dal mondo, di rimettere l’attenzione e la sensibilità al centro dei nostri modi di essere. Non pone necessariamente gli ecosistemi come luoghi di conflitto, come spazi in cui si creano distinzioni tra amici e nemici, e se lo fa, può ancora essere impiegata per sostenere la dominazione. All’interno dell’ecologia, è ancora possibile prendere le parti dell’economia, ovvero di quella rete di abitudini, oggetti e persone che permette all’Impero di durare. Che questo schieramento si chiami sviluppo sostenibile, transizione energetica, filiera corta o permacultura, non illudiamoci quanto al suo sostegno al normale ordine delle cose. Naturalmente, non si tratta di opporsi alla permacultura o alle filiere corte, ma di constatare che spesso rimangono mere alternative all’interno dell’economia. Come sempre, è alla questione degli usi che dobbiamo rivolgerci: farne i mezzi di lotta piuttosto che quelli di stabilizzazione del capitale.
Ciò che ci oppone ai sostenitori dell’economia non è che noi saremmo ecologisti e loro no. Se anche loro partono dalla premessa che qualcosa nel mondo deve cambiare per permetterci di continuare a vivere, due cose si oppongono radicalmente a noi. Il loro “cambiamento” è sinonimo di innovazione, l’invenzione di nuove tecniche che minimizzano o “compensano” il nostro impatto sugli ambienti di vita. La loro diagnosi è statistica; i loro mezzi consistono soprattutto nell’introduzione di nuovi metodi di gestione. La loro preoccupazione è quella di permettere alla vita moderna di fare il suo corso senza che si notino i cambiamenti, senza che gli effetti della distruzione si facciano sentire. Vogliono approfondire e riaffermare questa impressione di assenza totale al mondo. Che le cose funzionino, che l’economia funzioni, senza che nessuno sia direttamente coinvolto, senza che nessuno abbia voce in capitolo. Una transizione ecologica che nessuno noterebbe. Insomma, come prima, ma in modo verde: frantumare frammenti, appiattire mondi abitati da esseri di ogni sorta, per farne una totalità liscia (società) che si governa e si amministra, che sfrutta ed estrae profitto. L’ecologia economica che sostengono è fondamentalmente un’ecologia dell’assenza. Per noi, al contrario, cambiare implica riaffermarsi nelle pratiche con cui influenziamo gli ambienti che abitiamo e che ci abitano, che legano la nostra vita al mondo. Per farlo, reimpariamo modi di fare che resistono al distacco che la modernità ha cercato di operare tra le comunità e i loro habitat, tra i corpi e le comunità.
SAPPIAMO CHE legare l’uomo al resto del mondo non è di per sé ciò che rende al momento l’ecologia un problema. Infatti, il passaggio da un’ontologia – un modo di essere nel mondo – che pone la natura da una parte e la cultura dall’altra, a un’ontologia relazionale, in cui esistono relazioni di dipendenza, cooperazione, predazione, ecc. tra ciò che costituisce un ambiente è, perlomeno nella storia recente, ampiamente legato alla scienza dei sistemi, in cui l’ecologia è stata sviluppata come strumento di gestione governativa dei territori: come minimizzare le conseguenze dello sfruttamento del territorio e quindi aumentare costantemente l’estrazione di valore?
Il vincolo di appartenenza e di responsabilità che lega le comunità indigene e i loro territori come parte integrante del loro essere; l’amore dei contadini per la vita intrecciata e fiorente e la loro diffidenza verso il land grabbing industriale; l’irruzione insurrezionale degli zapatisti contro il governo messicano, l’autonomia materiale e territoriale dei Kanien’keha:ka: queste esistenze in atto sono tutte linee che ci attraversano. Tutte le tradizioni che alimentano il nostro immaginario di ecologia politica si oppongono alla visione che essere ecologista consiste nel minimizzare la nostra “impronta ecologica”. Sono esempi di intensificazione della vita, sono ecologie della presenza.
SE POTESSIMO SCEGLIERE, preferiremmo l’eventualità di una crisi climatica che si faccia sentire, che superi i dispositivi statali e che imponga una riconfigurazione della vita, la creazione di un legame, il rimettere in questione i nostri modi di fare; rispetto a quella di un’estinzione di massa gestita talmente bene da passare inosservata. Se potessimo scegliere, preferiremmo la rovina della metropoli globale alla potenziale resilienza della sua svolta green.
NON È a causa di preoccupazioni economiche o morali che gli Anishinabeg della riserva di Vérendrye si organizzano per ottenere una moratoria sulla caccia all’alce. Coloro che cacciano in questi territori conoscono le alci come esseri che abitano la foresta e con le quali devono intrattenere delle relazioni “diplomatiche” affinché continuino ad arrivare anno dopo anno; sono molto più di una “risorsa alimentare” autonoma delle reti di distribuzione del mondo coloniale. La sfida, per loro, consiste nel lottare per non perdere quella forma di coscienza altra, quella prospettiva altra che esiste sulla foresta e in essa, “di non ritrovarsi soli”, come diceva un’amica.

Difendere i territori significa necessariamente imparare ad abitarli e viceversa abitare veramente significa necessariamente difendere i territori. Gli esperimenti politici a cui ci rivolgiamo per trovare altri modi di vivere ci richiedono di connetterci, di affezionarci. Il fatto è che il vivere bene implica sempre una vita che va oltre il Sé, la “vita”, una vita molteplice. Vivere bene coinvolge ognuno di noi in una vita comune. Ciò che intendiamo per ecologia politica dell’abitare è anche una lotta inseparabile dalla vita. Inseparabile, prima di tutto, poiché il suo slancio – ciò che la spinge – emerge dalla stessa vita che si difende, che fiorisce e genera semi. Inseparabile, perché questa ecologia politica non può essere pensata senza il resto del mondo che abita. Sa di esservi legata. La lotta e la vita non saranno rimesse nelle mani di coloro che le distruggono.
Ecco perché la non-violenza brandita come principio assoluto dai gruppi mainstream è sia irresponsabile che innocua. In questa ingiunzione al distacco, le questioni tattiche e strategiche che devono essere legate a qualsiasi contesto, a qualsiasi situazione, sono sostituite da un pavido dono di sé.
Mettere il proprio nome nelle mani della polizia e il proprio corpo tra le sbarre di una prigione sono due modi abbastanza efficaci per precludersi la possibilità di agire. La logica sacrificale implica necessariamente una delega di responsabilità, e non come potrebbe sembrare l’assunzione del controllo della situazione. Un’esortazione a essere deboli, a mettere il problema più importante del XXI secolo nelle mani dei colpevoli. Per poter affermare di essere pacifici, è necessario poter dispiegare una forza. Definirsi pacifici senza avere la capacità di essere violenti significa semplicemente essere impotenti.
SI PREGA DI NOTARE la visione a breve termine che deriva dal lasciarsi arrestare. I militanti delle organizzazioni ambientaliste sono, dopo la loro azione, bloccati in un labirinto legale che gli impedisce di continuare le loro attività. Coloro che sanno che la lotta dovrà un giorno impiegare mezzi più radicali si condannano, a causa delle loro condizioni giuridiche, a esserne spettatori. Delega e ri-delega. La volontà di autosabotaggio è probabilmente il più grande punto in comune tra i gruppi di attivisti e la civiltà occidentale.
Alla morale sacrificale del dono militante di sé, opponiamo l’esigenza di forme di vita estatiche. L’ecologia al centro dei discorsi di sempre più gruppi di cittadini e di istituzioni governamentali reca i segni di quelle politiche della debolezza che mirano a sabotare ogni tentativo di organizzazione reale e tutto ciò che necessita di un dispiegamento di forze concrete. Fare di più, avere un maggiore impatto, prendersi cura in modo migliore, sentire di più. Trovare i soldi, dotarsi di edifici e terreni da restituire all’uso comune e vedere la vita fiorire. Pensare in modo strategico, darsi i mezzi per risuonare. Combattere, colpire più forte, utilizzare le armi che sono necessarie. Rubare per vivere e fare buon uso del tempo liberato. Viaggiare in auto, in aereo, riaccendere le braci di vecchie amicizie. Trovare dei compagni nei luoghi più inaspettati, rendersi sensibili alla comunità che circola, alla comune latente in ogni luogo.
Estasi : beatitudine provocata da un’uscita, uno spostamento rispetto a ciò che ci ha costituito come “Sé”, come “posizione sociale”, come “identità”. Uscita dal mondo della merce. Lontano da tutte le concezioni liberali, rottura con la “società”, e dunque con “l’individuo” che ne è la più piccola unità. Secessione dal nulla. Gioia. Per una vita che trabocca e ci trascina con sé.
La comune come linea di fuga rende possibile l’elaborazione di forme-di-vita ecologiche, sensibili. La comune è una forza di gravità, un peso che attira e accoglie coloro che la cercano permettendogli di resistere. Si materializza in delle aperture, in degli spazi per invitarsi e invitare, nei pasti e nelle conserve condivise. Sono le occasioni in cui ci incontriamo, in cui mostriamo cosa abbiamo scritto la sera prima, cosa ci ha insegnato nostra zia sugli alberi di prugne, come affilare i nostri coltelli per intagliare il legno, come mettere nei barattoli dieci ceste di pomodori, come tessere le coperte per l’inverno. Per sviluppare forme coerenti di autonomia materiale e politica, d’ora in poi dobbiamo rendere comuni spazi, terre e terreni liberi, edifici, chiese, case e parchi. Una possibilità di nuocere a questo mondo è contenuta nella nostra capacità di rendere abitabili questi spazi, di incoraggiare la circolazione dei corpi, degli affetti, delle idee tra questi nodi di potenza materiale autonoma. Una possibilità in grado di sospendere definitivamente la progressione della catastrofe.
Gli schemi classici della rivoluzione vogliono vedere l’economia passare dalle mani dei borghesi a quelle del proletariato. La situazione attuale mostra che l’Economia stessa è il cuore del problema: la sua infrastruttura imponente e mortifera, la sua logica pacificante e di appianamento, la sua forza di cattura e di spossessamento, il suo impoverimento dell’esperienza. Che gli esseri possano vivere ed essere felici, è questo che si trova al centro della nostra idea di rivoluzione: sottrarsi all’economia e al governo, stringere delle alleanze con le forme-di-vita in presenza, elaborare con loro degli ecosistemi fiorenti e contagiosi, lontani dalle logiche del progresso e dalla normalità governamentale.
Mentre per anni i militanti ecologisti si sono impegnati a sottolineare l’incompatibilità tra capitalismo e ambiente, ci sembra che ora la problematica dell’ecologia possa essere manipolata e incastrarsi alla perfezione in seno al moderno progetto coloniale di assenza al mondo, di spossessamento generalizzato. La pretesa di ridurre l’impronta ecologica è accompagnata da un’ingiunzione a scomparire.
Le ecologie dell’assenza ci parlano di dove non siamo, ci spingono in un altrove che non si trova da nessuna parte. Ci consumano e ci propongono di consumare in modo diverso. Possono essere pavide o coraggiose, ma non si mettono mai in gioco. Sono testimoni della carneficina del mondo e si crogiolano in essa. L’opposto delle proposizioni politiche dell’assenza sono quelle che si incarnano in dei luoghi, che sono ben altro che pura circolazione di merci o rappresentazioni spettacolari, quelle che non si coniugano all’Io della prima persona.
La questione della presenza che vogliamo porre al centro della nostra comprensione dell’ecologia riguarda la nozione stessa di azione politica. Comprendere la catastrofe ambientale come un problema da regolare, avere come obiettivo di sconfiggere il cambiamento climatico implica un oblio di sé che così viene proiettato sul mondo.
Ciò che bisogna ristabilire, non è il clima, ma la nostra connessione con il mondo. Quello che rende possibile la catastrofe e quello che ci lascia indifferenti nei suoi confronti è la nostra mancanza di attenzione, il nostro distacco dall’insieme che costituiamo e che ci costituisce. Sospendere questa sospensione dal mondo poggia sull’attenzione al commento, si trova nei modi e non nei fini, nell’uso quotidiano, nella presenza immediata ai modi intricati attraverso cui si generano i mondi (e la gioia di apprendere a giocarvi veramente).
Un’ecologia della presenza si sviluppa in un doppio movimento, quello di una riconnessione materiale ed esistenziale con il mondo che abitiamo. Posizioni e disposizioni. Rendersi presenti è una pratica che consiste nel rompere con l’assenza al mondo attraverso l’elaborazione di nuove sensibilità, ma anche di nuove posizioni da cui agire, di nuove consistenze. Rendersi percepibili e disposti verso la percezione. Affetto e potenza, orientamento e grandezza. Non si tratta di “due fronti” da portare avanti, ma della spiegazione pratica del duplice senso delle parole “presenza”, “sensibile”.
La totalità non può essere governata, né gestita. Mantenere un legame con un vero frammento di mondo vale mille volte di più che agitarsi nel vuoto, aspettandosi dal nemico che agisca contro i propri interessi. Riconnettersi, oltre a essere la condizione di possibilità di ogni pratica effettiva e responsabile, porta con sé anche la gioia di restituire alla vita la sua trama, di rendere più densa la nostra presenza al mondo.
