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Sette tesi sulla destituzione (dopo Endnotes)

Kiersten Solt, V.I.

da Ill Will

Tesi 1: La proiezione retrospettiva di un’identità politica intatta per spiegare il nostro presente offusca le verità del nostro tempo.

Di recente ci hanno detto che, alla luce della crisi della rappresentanza politica, la persistente pulsione identitaria degli sconvolgimenti contemporanei è “razionale”. Che razionalità è questa? In ” Onward, Barbarians“, Endnotes situa il nostro presente all’indomani della scomparsa dei movimenti operai, una linea familiare ad alcuni filoni del pensiero rivoluzionario contemporaneo. L’argomentazione procede come segue. Nell’epoca dei movimenti operai, l’economia determinava il politico. La struttura antagonista del capitale si manifestava come un antagonismo sociale tra proletari e borghesi. La determinazione economica del politico permetteva così all’energia ribelle di prendere forma come movimento della classe operaia. Oggi, si dice, le dinamiche socio-economiche continuano a determinare il campo politico, ma principalmente come forze di dissoluzione piuttosto che di costruzione. Così, al posto della composizione di classe troviamo la decomposizione di classe, al posto della base socio-economica della rappresentanza democratica troviamo un’assenza di essa, e al posto dei movimenti dei lavoratori troviamo i “non-movimenti”. In questa lettura, i campi socio-economici e politici di oggi appaiono quindi come le immagini negative di ciò che erano sessant’anni fa.

Ci viene detto che le lotte contemporanee sono “identitarie” per via del loro passato, un passato che oggi è perduto. Cosa significa questo per i partigiani? Se traduciamo il discorso nei termini dell’esperienza vissuta, il quadro che otteniamo è malinconico. Gli insorti di oggi stanno elaborando la perdita di un’identità di classe un tempo integra e legittima. Siamo nostalgici di un sistema che una volta funzionava e legittimava una rappresentanza politica di classe che, ci viene detto, il nostro mondo non può più offrire. Ma la morte dei movimenti operai e il conseguente crollo della rappresentanza politica effettiva sono veramente i problemi che animano la nostra epoca? No. I frontliner della scorsa estate sono troppo giovani e non abbastanza “istruiti” per provare nostalgia per un’identità operaia assente. Se ci sentiamo preoccupati dalla mancanza di carriere praticabili, è molto più a causa della nostra incapacità a pagare l’affitto e i debiti che perché desideriamo unirci ai nostri compagni di lavoro inesistenti. Né alcuna condizione umana si è dimostrata abbastanza stabile da concludere – oltre, potremmo notare, alla recente lettura di Francis Fukuyama della svolta identitaria nella politica americana – che un desiderio di appartenenza oggettivo e astorico si sia improvvisamente trovato senza alcuna forma positiva. La scomparsa dei movimenti operai e la crisi della rappresentanza politica sono più simili a precondizioni che a fenomeni vivi del nostro tempo, conti regolati molto prima che noi entrassimo in scena. Quindi, una spiegazione del persistente identitarismo e delle richieste di riconoscimento da parte dello Stato devono iniziare da qualche altra parte piuttosto che dalla decomposizione dei movimenti operai, le cui conseguenze sono iniziate più di un secolo fa. Potrebbe iniziare, forse, dalle forme di potere rese possibili dalle rivendicazioni di comunanza identitaria e da ciò che rende tali formazioni desiderabili, e non solo razionali, nel nostro presente. Ma spiegare le origini dei persistenti conflitti identitari non è precisamente il mio compito.

Qui, invece, cerco di capire cosa viene oscurato da queste rappresentazioni romantiche del presente. Definisco romantico-romantica la tesi di Endnotes, che pone un nocciolo di verità in un passato immaginario, un nocciolo da riscoprire e ripristinare nuovamente. La visione dialettica non si oppone forse al romanticismo? Insisto sul termine, perché ciò che il romanticismo e la dialettica grezza hanno in comune è la struttura della premessa, della negazione e della successiva postulazione di un universale nuovo, positivo e unificato.

Tesi 2: Finché ci si aggrappa alla prospettiva dello spettacolo – il regime di visibilità che domina nella società delle merci, il regime sbiancato della visualizzazione – il nostro presente è destinato ad apparire in negativo, cioè come mancanza, assenza e negazione. Di conseguenza, il futuro dell’attività rivoluzionaria sarà inquadrato come necessità di un nuovo universale o di una nuova visione positiva.

Quando ad una configurazione politica del passato viene attribuito il peso della positività, è logico che il presente appaia in negativo. Se il nostro presente appare come un accumulo di assenze – la decomposizione della classe, la mancanza di una base di rappresentanza democratica, il non movimento dei movimenti di oggi – è perché è stato costretto a rispondere a un passato presunto, un sistema integro di determinazione economica e di rappresentanza politica. Quando al capitale, allo Stato e alla politica ad essi riconducibile viene accordato il peso, la positività e la continuità del reale, è solo per estensione logica che i movimenti contemporanei appaiono in negativo, come nient’altro che “deboli alleanze” e “disordine generalizzato”. Certi teorici affermano addirittura questo principio analitico (“È la coscienza del capitale come nostra unità nella separazione che ci permette di porre dall’interno delle condizioni esistenti la capacità di comunismo dell’umanità, anche se solo come fotografia in negativo.” (pp.52-53 n. 32, corsivo nostro)). Al capitale viene attribuita la positività dell'”unità”, anche se modificata, rispetto alla quale lo sconvolgimento appare solo in modo negativo.

La positività sta tanto nel passato quanto dalla parte del capitale, o in entrambi; il presente è destinato ad apparire in negativo. Il prossimo passo teorico è altrettanto determinato. Ciò che è necessario assumerà la forma rovesciata due volte di ciò che è stato perso. Per questo motivo, le proposte future di azione rivoluzionaria che nascono da quadri come questi appaiono come positività. Per esempio: “I non-movimenti indicano la necessità di un universalismo che vada oltre le rovine dei movimenti operai.” (p.12) Dobbiamo “prevedere i mezzi con cui i non-movimenti potrebbero prima o poi prendere il controllo della stagnazione/deindustrializzazione capitalista”, e persino considerare “la preparazione di un piano di sottoproduzione”, ci viene detto. (pp.24, 26) Ancora una volta, ciò che è disponibile altrove, nel passato o dalla parte del capitale, manca nel presente e detta la forma di ciò che dovrebbe venire (anche se non ciò che verrà). Quando si è intenti a inquadrare lo sconvolgimento in negativo, ciò che viene richiesto sarà sempre una positività nuova e attualmente assente, un comune nuovo e attualmente assente, un universale nuovo e impensato. Ma tutto questo per dire che ciò che manca è l’unità del proletariato, l’universale, un soggetto rivoluzionario agente, e che ci dicono che è verso questo che ci dobbiamo organizzare.

Se rimaniamo con una concezione della rivoluzione come un ciclo infinito di violenza, se non riusciamo a sviluppare un’ambizione alternativa, non riusciamo a capire i movimenti rivoluzionari come qualcosa di diverso dai fallimenti e rischiamo che le nostre ambizioni prendano la forma di ciò che si prefiggono di minare.

Tesi 3: Contrariamente a ogni prospettiva spettacolare, la relazione tra gli elementi rivoluzionari e i loro aspiranti rappresentanti è quella di un conflitto persistente e asimmetrico.

Se gli sconvolgimenti contemporanei non richiedono di per sé un riferimento ai movimenti operai del primo Novecento, è possibile mantenerli nella visione senza produrre visioni romantiche del presente. Una varietà di fonti offre conti alternativi sulla dissoluzione dei movimenti; faccio mia la lettura di Tiqqun del periodo dell’Autonomia in Italia. È in questo periodo che è emersa la nozione di “decomposizione di classe” – la “decomposizione” che apparentemente caratterizza il nostro presente. Nella lettura di Tiqqun, quello che molti nostalgicamente chiamano “il movimento operaio” non è, in realtà, l’elemento rivoluzionario dell’epoca, ma piuttosto il suo corollario capitalista-statalista. “Il movimento operaio coincise per tutta la sua esistenza con la frazione progressista del capitalismo”, scrive Tiqqun. “Dal febbraio 1848 fino alle utopie di autogestione degli anni Settanta passando per la comune, per quanto riguarda i suoi elementi più radicali, ha sempre rivendicato soltanto il diritto dei proletari di gestirsi da soli il Capitale”. (Questo non è un programma, pp.30-31) Riconoscendo la distinzione tra proletariato e classe operaia, l’equiparazione degli elementi rivoluzionari ad essa è un errore.

L’elemento rivoluzionario è il proletariato, la plebaglia. […] Ogni volta che ha tentato di definirsi come classe, il proletariato si è perso, ha preso come modello la classe dominante, la borghesia. Come non classe […] il proletariato è ciò che si sperimenta come forma di vita. È comunista o non è. In ogni epoca la forma in cui appare il proletariato si ridefinisce secondo la configurazione generale delle ostilità. La confusione più deplorevole in questo senso riguarda la “classe operaia”.

(ibidem)

Il significato di questo passaggio è dunque la dislocazione storica e concettuale del proletariato – cioè degli elementi rivoluzionari – dalla sua tradizionale confusione con la classe operaia. La confusione degli elementi rivoluzionari con una formazione socio-economica molare è e fu la loro rovina. Nel suo testo più recente, Endnotes getta uno sguardo roseo sul passato. Non è possibile che le persone che vivevano in quel passato si percepissero vivere nel tipo di unità che Endnotes invoca. Come potremmo capire Jim Crow, la Ricostruzione, o le guerre mondiali se i conflitti dell’epoca si fossero effettivamente organizzati intorno a una forte identità di classe operaia? La domanda si risponde da sola.

Gli elementi rivoluzionari sono definiti unicamente dalla loro vocazione. Sono allergici alla rappresentazione, democratica o meno, e allergici allo Stato. C’è quindi un conflitto asimmetrico all’interno dell’agitazione rivoluzionaria.

L’asimmetria del conflitto rivoluzionario è un concetto familiare in America, la democrazia liberale ed esportatrice di politiche identitarie per eccellenza. Qui, la natura asimmetrica degli sconvolgimenti rivoluzionari è visibile nella trasposizione forzata delle energie ribelli nella forma di movimenti sociali – cioè una forma di contestazione suscettibile di dialogo con lo stato. Dalle energie rivoluzionarie, dai gesti, dalle pratiche e dalle idee, le forze contro-insurrezionali mirano a estrarre un costituente le cui rimostranze possono essere articolate in modo leggibile per lo Stato sulla base di un fantomatico contratto sociale. Così, nel 2011, abbiamo visto un insieme di articoli su Adbusters, responsabili dei comitati dei media, dei comitati per le richieste e delle assemblee generali produrre “il 99%” che “voleva le multinazionali fuori dalla politica” dalle occupazioni, dai blocchi e dalle storie d’amore che nascevano in tutto il paese. Nel 2014, abbiamo visto Alicia Garza e Fox News, membri del clero nero, attivisti e il franchising nazionale chiamato “Black Lives Matter” produrre “Black Lives that Mattered” dalle rivolte, dai saccheggi, dalle occupazioni e dagli atti di comunizzazione in luoghi come Ferguson, Milwaukee, Baltimora e Charlotte. Nel 2016-2017, abbiamo visto i vari David Archimbault, il Bureau of Indian Affairs, l’entità giuridica che è la “Standing Rock Sioux Tribe”, le cause legali che cercano di bloccare la costruzione dell’oleodotto, e l’US Army Corps of Engineers produrre un “popolo indigeno” in cerca del “riconoscimento dei loro diritti all’autonomia e alla terra” dagli accampamenti, i pasti condivisi, la distruzione delle attrezzature del cantiere, la fuga dei bufali e le battaglie campali con la polizia a Standing Rock. E l’estate scorsa, abbiamo visto una sollevazione che si è trasformata in un desiderio sloganistico di definanziare la polizia e in un’altra farsa elettorale. Questa volta, tuttavia, il processo gestionale è risultato molto meno esaustivo.

Di nuovo: c’è un conflitto asimmetrico all’interno degli sconvolgimenti rivoluzionari. Quando se ne parla in modo univoco, sia come “movimenti” che come “non movimenti”, questa asimmetria – il conflitto all’interno del conflitto – viene oscurato.

Tesi 4: Gli attuali sconvolgimenti sono il luogo di un incontro conflittuale tra gesti destituenti e forze costituenti. 

Come non si esce indenni dalla prima rivolta a cui si partecipa allo stesso modo non si può fare esperienza di una situazione di ingovernabilità senza comprenderne gli spunti defamliarizzanti. L’ingovernabilità porta con sé la netta sensazione che le cose si sviluppino troppo rapidamente perché qualsiasi parte possa ottenere una presa totalizzante sulla situazione. Questo è tanto vero in ogni rivolta particolare quanto lo è per la situazione più ampia a portata di mano. Gli appelli all’azione proliferano da innumerevoli campi sconosciuti; la folla si riunisce per intuizione piuttosto che in eventi pubblicizzati; si sente parlare di attacchi imprevedibili dopo che sono avvenuti. Mentre una folla trascina macerie in un edificio già in fiamme, è assolutamente possibile che un’altra stia rilanciando candelotti di gas lacrimogeno alla polizia oltre le barricate in fiamme a uno o dieci isolati di distanza. Nel frattempo, bande di saccheggiatori danzano dentro e fuori le manifestazioni, mentre altri potrebbero essere impegnati a distruggere un quartiere dello shopping dall’altra parte della città. Appaiono visioni inesplicabili che poi svaniscono di nuovo nel paesaggio: qualcuno con un megafono e qualcun altro a cavallo, squadre di costruttori che adocchiano come un certo pezzo di compensato possa combaciare con quel pezzo di recinzione alto tre metri, gruppetti di amici che si passano una canna, qualcun altro che porta un bambino sulle spalle, compongono la scena effimera.

Sprinter e risse, granate stordenti e fuochi d’artificio, fischi lunghi e bassi, quegli inutili gorgheggi dei punkabbestia. Cose non del tutto gioiose: ogni tanto la gente grida di dolore o cade a terra piangendo; altri se ne vanno perché sono stati compromessi o si sono trovati impreparati. E la situazione non è del tutto favorevole alle correnti rivoluzionarie: i desideri si scontrano, le lotte per la strategia si susseguono, le tendenze controrivoluzionarie abbondano. Ma una sollevazione, un’insurrezione, una situazione ingovernabile è caratterizzata dalla sensazione non solo che tutto è possibile, ma che si può agire come si vuole senza la minima esitazione. Dal 26 maggio al 1° giugno 2020, USA, per esempio.

Quando possibilità del genere sono sul tavolo, il processo di costituzione non può farsi strada con un singolo atto di repressione e contenimento ma richiede un’accumulazione di gesti ed esitazioni. Quando possibilità come queste sono sul tavolo, il processo di costituzione non può avviarsi attraverso un singolo atto di repressione o contenimento, ma richiede un accumulo di gesti ed esitazioni. Qualcuno che urla “se non sei nero…” cattura le orecchie di una porzione considerevole di una folla, e non solo di una manciata dei partecipanti più confusi. Una rissa o una spintonata tra macho può fermare un corteo in mezzo alla strada. Invece di una proliferazione di azioni così estesa che ci vuole tempo per determinare dove il proprio gruppo inizierà la giornata, le azioni sono annunciate con giorni di anticipo e sponsorizzate da una lista allegata di organizzazioni. Le stesse persone si presentano regolarmente per fare discorsi, con l’effetto non solo di creare un sentimento o una direzione per la folla, ma di diventare lentamente delle figure riconoscibili – lo si capisce, in questi giorni, quando incominciano a menzionare su Instagram per qualcosa di diverso dai suggerimenti musicali per il camion del sound. Alla fine arrivano le riunioni. Non dei gruppi che fanno resoconti, che fanno piani o che cercano di coordinarsi tra più elementi che si sono appena incontrati. Tutti questi hanno il loro posto nella confusione ingovernabile e possono persino essere mezzi chiave per espanderla. Al contrario, il processo di costituzione fa emergere le riunioni di organizzatori e attivisti. “Questo è un movimento, non un momento”, hanno detto dai loro megafoni il giorno prima. Alle riunioni, qualcuno invocherà un misterioso e mai presente “popolo”: gente che vuole qualcosa, gente che potrebbe essere “alienata” da questo o quel blocco o da qualsiasi altra cosa che non sia una protesta pacifica, gente che dovrebbe essere “coinvolta” perché gli oratori si stanno spogliando completamente della loro capacità di agire per proprio conto, e preferirebbero che tutti gli altri seguissero l’esempio. Dopo troppe chiacchiere, si formeranno i gruppetti di discussione e ognuno riposerà in pace nei ruoli che gli sono stati assegnati. Piccoli burocrati. Così, inizia a formarsi uno strato di manager. Se le rivolte, i saccheggi e le battaglie in strada sono ancora in corso, chiameranno azioni a distanza da questi eventi più indisciplinati, conducendo le folle verso quelli che chiamano obiettivi “strategici”, che sono sempre i troni vuoti del potere, il palazzo dei governatori, i palazzi di giustizia, gli edifici federali. Presto saranno al tavolo dei politici, dove hanno sempre voluto essere.

Questa è un’immagine di un processo costituente all’opera negli Stati Uniti del ventunesimo secolo.

Tesi 5: Il processo costituente è il processo in opera in ogni stato—in ogni cosiddetto movimento sociale ed identitarismo, così come in ogni populismo, fascismo e guerra civile.

Le forze dello Stato si presentano sempre come congiunzioni pienamente formate da un popolo, un territorio e una legge che li governa tutti. Ma non c’è nessun “popolo”, nessuna “società”, nessuna “nazione”, nessun “corpo politico”, nessun “costituente” finché non sono prodotti come tali – sempre per mezzo di una violenta demarcazione tra inclusi ed esclusi. Non ci sono “interessi”, “desideri”, né “volontà del popolo” finché non vengono forgiati in quanto tali, sempre appiattendo i desideri reali al minimo comune denominatore. E non c’è santificazione di questa volontà in forma di legge fino al momento in cui la legge viene applicata, sempre con la forza arbitraria. La distinzione dell’Abbé Sieyès tra potere costituente e potere costituito, la teoria costituzionale di Carl Schmitt, la distinzione di Walter Benjamin tra violenza legislativa e violenza conservativa, l'”Urstaat” di Deleuze e Guattari, il “paradosso della sovranità” di Agamben e il concetto di costituzione che qui mobilitiamo sono tutti tentativi – sebbene con motivazioni molto diverse – di rendere visibile il processo attraverso il quale nascono gli stati, mentre si celano le operazioni produttive necessarie alla loro realizzazione. Il contributo unico di Agamben è stato quello di raccogliere questo filone e di affermare, al contrario di Negri, che le forme, le attività e le potenzialità proprie del potere costituito non possono essere isolate da esso. I costituenti, il potenziale costituente e le costituzioni stesse sono effetti secondari di un processo costituente più fondamentale. “Costituzione” nomina così i processi attraverso i quali le energie, i desideri, i gesti e la vita sono incanalati e modulati in forme accettabili per lo Stato. La posta in gioco del concetto è la capacità di allontanarsi dal paesaggio dello Stato.

Se il “movimento sociale classico” deve essere definito, seguendo Carl Schmitt, come “la mediazione tra la popolazione non organizzata e lo stato”, questa è una definizione del movimento sociale come un processo di costituzione. Da qui si sviluppa una potenziale tassonomia delle forme-limite delle rivolte contemporanee. Non tutti i movimenti sociali sono populisti, ma ogni populismo è un movimento sociale. I movimenti populisti si verificano quando un popolo costituente si ribella alla concezione prevalente della cultura borghese. Non tutti i movimenti sono identitari, ma ogni movimento identitario è costituente. I movimenti identitari postulano un popolo parziale emarginato o escluso dalla dimensione popolare dello Stato. La loro traiettoria è quindi doppiamente costituente nella misura in cui mira alla costituzione del popolo escluso e alla ricostituzione della totalità popolare. La distinzione tra movimenti sociali identitari e populisti è meno evidente dal punto di vista dello Stato, ma importante dal punto di vista dei partigiani, poiché l’un l’altro presentano diverse opportunità di uscire dallo schema costituente. Entrambi, comunque, coinvolgono la costituzione di un popolo, entrambi finiscono al tavolo dei politici, ed entrambi sono in definitiva costituenti. Inoltre, una combinazione di tendenze identitarie e populiste può, come hanno dimostrato gli ultimi cinque anni, dare origine a movimenti sociali colloquialmente intesi come fascisti.

Quando un partito di opposizione assume una forma troppo discreta e troppo potente perché lo stato possa rispondere, quando la dimensione popolare dello stato si frattura al di là della possibilità di ricostituzione, e quando lo stato non detiene più il monopolio della legittimità e della violenza, lo sconvolgimento che altrimenti avrebbe potuto essere un movimento sociale può assumere la forma costituente della guerra civile. La guerra civile, come forma limite di rivolta, rimane “sociale” nella misura in cui è in gioco la società stessa. Una particolare linea di battaglia arriva a definire l’intero conflitto. I partigiani vengono bloccati in un antagonismo reciprocamente costitutivo. L’attaccamento al luogo, reale o immaginario, facilita la chiusura dei ranghi. Il conflitto militarizzato si sostituisce a tutti i conflitti, come quando “le armi diventano il surrogato della strategia”. Il conflitto non è più generativo, ma si riduce a preoccuparsi solo di ciò che è già presente nella battaglia. La guerra civile è definita dal suo uso del conflitto come meccanismo predominante per costituire un popolo – e in questo senso, è in definitiva un processo costituente.

Il movimento sociale classico, il populismo, il fascismo e la guerra civile: sebbene differenze significative delimitino questi fenomeni politici, il motore di ciascuno è costituente. Detto altrimenti, fascismo e democrazia sono legati sulla stessa linea di contiguità, indubitabilmente stabilita dagli eventi del XX secolo. Il movimento sociale classico e la guerra civile sono le forme estreme che la sollevazione assume quando predominano le tendenze costituenti.

Tesi 6: I processi di destituzione si differenziano dalle forze costituenti in azione e così facendo le minano.

Per descrivere ciò che avviene nelle rivolte al di fuori delle tendenze costituenti, è apparso il termine ” destituzione “. Nel suo significato per il pensiero rivoluzionario contemporaneo, il concetto si è sviluppato alla luce di un contesto storico e politico definito dal crollo del movimento operaio e dalle crisi della rappresentanza, così come dalla confutazione di ogni programmatismo. La distinzione tra costituzione e destituzione non è meramente descrittiva, ma pragmatica: mira a rispondere alla questione di ciò che deve essere incentivato e ciò che non lo deve essere.

A essere sicuri, una “strategia destituente” non è in assoluto rivoluzionaria – a condizione, cioè, che il termine “rivoluzione” sia riservato a quei sommovimenti che installano un nuovo potere al posto di quello rovesciato. “Se al potere costituente corrispondono rivoluzioni, sommosse e nuove costituzioni, cioè una violenza che pone e costituisce una nuovo diritto, per la potenza destituente occorre pensare tutt’altre strategie, la cui definizione è compito della politica che viene”, scriveva Agamben nel 2014. (L’uso dei corpi, p.337) Nel 2017, il Comitato Invisibile ha sviluppato la distinzione come segue:

[L]a nozione di destituzione…è necessaria per incidere nella logica rivoluzionaria, per operare una divisione all’interno stesso dell’idea di insurrezione. Perché esistono le insurrezioni costituenti, quelle che finiscono come sono finite tutte le rivoluzioni finora, rovesciandosi nel loro contrario; sono le insurrezioni fatte “in nome di…” – in nome di che? Del popolo, della classe operaia o di Dio, poco importa. Ma poi esistono le insurrezioni destituenti, come lo sono state il Maggio francese, il “lungo Sessantotto” italiano, e tante comuni insurrezionali.

(Adesso, p.299)

Le insurrezioni costituenti sono quelle che assumono, in un modo o nell’altro, una forma compatibile con lo Stato, sia quello in vigore che quello che verrà. Le insurrezioni destituenti (ne abbiamo visto pochissime) puntano altrove e sono per lo più subordinate alle tendenze costituenti. Le forze destituenti sono intrinsecamente difficili da vedere.

La destituzione diffonde il potere senza accumularlo. È il processo attraverso il quale gli eventi e le singolarità fanno uso di forze e poteri che non possiedono né incarnano. La destituzione disfa sia le nazioni che gli stati, disperdendo i poteri che essi schierano nel mondo, smembrando e disaggregando sia gli eserciti che le ricchezze.

Endnotes obbietta che il termine “destituente” è troppo ampio. “Ogni potere sta diventando destituente”, scrivono. Ogni potere è destituente “anche quando conduce a una (potenzialmente) nuova costituzione come in Cile… [I]l voto stesso [per una nuova costituzione scritta da membri diversi dagli attuali politici n.d.A.] era presumibilmente un voto contro il sistema politico.” (p.54 n.38). Allungare un concetto al di là della sua portata abituale può portare al suo sviluppo, ma può anche, come per ogni forma di vita, consegnarlo alla morte. È Endnotes che ha ampliato la categoria oltre l’utilità. E non dovete credere a noi, perché gli autori francesi lo hanno spiegato loro stessi. Poche righe sotto la già citata distinzione tra insurrezioni costituenti e destituenti, il Comitato Invisibile scrive: “A dispetto di tutto ciò che è potuto succedervi di bello, di vivente e di inatteso, Nuit debout – come precedentemente il movimento delle piazze spagnole od Occupy Wall Street – soffriva ancora del vecchio prurito costituente… Fintanto che si discute di parole, fintanto che la rivoluzione viene formulata nel linguaggio del diritto e della legge, le vie della sua neutralizzazione sono ben conosciute e canalizzate” (Adesso, p.299). Per quanto i referendum costituzionali in Cile, Tunisia o Sudan possano essere dipinti come voti “contro il sistema politico stesso”, in essi la tendenza costituente continua a regnare.

Se si può cominciare a vedere il carattere destituente delle insurrezioni anche mentre sono incanalate dalle forze costituenti, non è per una rottura dei termini ma per un passaggio nell’uso dei concetti. Demarcando le tendenze costituenti, la nozione di destituzione innesca il processo di pensiero nel punto in cui la dialettica strutturalista non può che concludere: sul terreno dell’evento stesso. Se stiamo assistendo alla proliferazione di movimenti destituenti in tutto il mondo – sempre che abbiamo in mente le rivolte cilene e le mense dei poveri, e non il voto – allora saremo chiamati a sviluppare un’immagine più dettagliata di come procedono. A ciascuno i suoi frammenti. Per affermare il punto in maniera più decisa: l’incapacità di delimitare quelle che qui chiamo forze costituenti e destituenti ci lascia con un’ambizione verso la rivoluzione che non è altro che un ciclo infinito di violenza, consegnando un altro secolo ai fallimenti fatali che strutturano il nostro presente.

Tesi 7: Le forze rivoluzionarie del nostro tempo non si svilupperanno nella forma di una nuova unità, un nuovo soggetto o un nuovo universale. Al contrario, il pensiero strategico comincia come una demarcazione nei sommovimenti contemporanei e la polarizzazione che prende forma in essi.

Non ci sarà un nuovo universale. Non ci sarà una nuova unità. Non ci sarà nessuna convergenza di lotte che si organizzerà nella forma di un agente soggettivo della rivoluzione che prenderà con la forza lo stato capitalista. Questo non è dovuto né alla debolezza collettiva di un impegno comunista di fronte a un regime catastrofico, né a una fittizia “fine della storia”. Al contrario, forse perché questi nuovi universali, nuove unità, nuovi movimenti, nuovi comuni e nuove differenze stanno già emergendo – al plurale. Perché c’è un potere in queste “deboli alleanze”, che altrove abbiamo chiamato “empie”. Non sono solo le forme politiche indebolite del nostro tempo che devono essere “trascese”, ma la sostanza di una nuova politica, ben attrezzata per un’epoca segnata dalla confusione e dal disordine ad ogni livello.

Il nostro compito è quello di segnare questi punti di densità, tra quelli che racchiudono possibilità di nuovi modi di essere e quelli che possono solo risultare nella proliferazione di forme asservite allo stato. Qui sta la differenza – che è, di fatto, una linea di combattimento – tra, da un lato, i nuovi partiti popolari con le loro agende socialiste o fasciste, le lotte rivoluzionarie che culminano in battaglie territoriali o lotte per il riconoscimento sulla scena politica internazionale, le dittature militari e i colpi di stato e, dall’altro, il divenire molecolare di emarginati e frontliner, sideshower e artisti nati e trasformati dal conflitto. Se i movimenti sociali classici, gli universalismi e il potenziale costituente appartengono ai primi, un vocabolario concettuale di destituzione, opacità, insurrezione, evocazione e piano di consistenza appartiene a noi.

Affermare il carattere trasformativo della nostra epoca liminale significa affermare che viviamo tra tentativi sperimentali. Alcuni avranno successo; altri saranno schiacciati dalle tendenze costituenti, dall’organizzazione del capitale e dalle crisi biopolitiche del nostro tempo; altri ancora svaniranno per ragioni proprie. Con questo non voglio dire che tutto vada perfettamente bene, né negare i limiti del nostro movimento. Né si tratta di affermare che la rivoluzione è un mero accumulo di lotte, una posizione che sospetto mi verrà ancora una volta erroneamente addebitata. Affermo che le forze che ci costringono si trovano effettivamente all’interno di quelle forme di vita che facilitano, emergono e sono trasformate dagli sconvolgimenti del nostro tempo. Il nostro compito è quello di stringere legami per coltivare – da qui, e non da altrove – un insieme di forze capaci di abbandonarsi all’evento.

Febbraio 2021

2 risposte su “Sette tesi sulla destituzione (dopo Endnotes)”

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