Prefazione all’edizione francese del libro di Yuk Hui, La question de la technique en Chine, Divergences, 2021 (in traduzione italiana Cosmotecnica. La questione della tecnica in Cina, Not Nero Edizioni)
“Del resto, i filosofi non mi interessano, io cerco saggi.”
Alexandre Kojève, maggio 1968
Il contesto
Si ponga, per cominciare, lo sfondo. Lo sfondo storico, se non memoriale. La Cina, dunque, si è risvegliata. E come previsto, il mondo trema. La cellula strategica della Deutsche Bank, consigliando i mercanti suoi clienti, anticipa per i decenni a venire una “guerra fredda tra gli USA e la Cina” al termine della quale “emergeranno due blocchi semicongelati” separati da un “Tech Wall” (L’età del disordine, settembre 2020). Il mondo si dividerebbe nel modo seguente: da un lato il quadro ereditato dalla globalizzazione, sotto egemonia americana da qualsiasi punto di vista, tanto monetario quanto militare, o tecnologico, o culturale, dall’altro le “nuove vie della seta” – la “belt and road initiative” – che corrono dalla pacificazione definitiva dello Xinjiang all’acquisto del Pireo o dei fiori all’occhiello della tecnologia tedesca, dalla diplomazia degli inganni in Algeria allo stabilimento di una base militare cinese a Gibuti, dal sostegno ai regimi minacciati dalle piazze (Siria, Tailandia o Birmania) a una politica d’influenza onnilaterale che non risparmia l’America del Sud come pure l’Africa e il Medio Oriente. Tra i due, strategie di containment e di provocazione, di dissimulazione e di pressione di ogni natura, mille micro-battaglie oscure e le dipendenze che vanno progressivamente a stabilirsi paese per paese, partito per partito, azienda per azienda. Deng Xiaoping raccomandava di “nascondere la propria forza e aspettare il momento”. L’ora è chiaramente venuta: ed è anche largamente trascorsa. Lo testimonia a sufficienza il grado di esplicitazione concettuale della proposta geopolitica cinese. Jiang Shigong, interprete ufficiale del “Xi Jinping – pensiero”, commentatore e apostolo dell’opera di Carl Schmitt in Cina, teorico dell’annessione di Hong Kong, non si accontenta di affermare che “l’ordine mondiale ha sempre funzionato secondo una logica imperiale”, malgrado la parentesi dell’ordine westfaliano, o d’interpretare la Storia come storia della lotta tra imperi navali e continentali. Egli argomenta soprattutto che il modello dell’attuale “impero mondiale 1.0” – quale crudele denominazione! – formato dalla civilizzazione cristiana occidentale e compiuto dagli Usa si trova davanti a tre problemi insolubili: “la crescita senza fine delle disuguaglianze dovute all’economia neoliberale; la debolezza degli Stati, il declino politico e la governance inefficace causata dal liberalismo politico; e la decadenza e il nichilismo creati dal liberalismo culturale”. Conclude così il suo Impero e ordine mondiale (2020): “Viviamo un’epoca di caos, di conflitto, di massiccio cambiamento dove l’impero mondiale 1.0 è al suo declino e va verso il suo collasso, mentre noi giungiamo al contrario ad immaginare l’impero mondiale 2.0 […]. La civilizzazione che sarà adatta a procurare le reali soluzioni ai tre grandi problemi ai quali fa fronte l’impero mondiale 1.0 fornirà anche il programma dell’impero mondiale 2.0. In quanto grande potenza che deve guardare al di là delle sue frontiere, la Cina deve riflettere sul suo futuro, perché ciò che conta nella sua missione non è solo fare rivivere la sua cultura tradizionale. La Cina deve anche assorbire pazientemente le capacità e le conquiste dell’umanità intera, e in particolare quelle usate dalla civiltà occidentale per conquistare l’impero mondiale. È solo su questa base che possiamo immaginare la ricostruzione della civiltà cinese e la ricostruzione dell’ordine mondiale come un tutto che si rinforza mutualmente”. Ecco qualcosa che ha il merito di essere detto senza troppi giri di parole.
Evidentemente, chiunque si sia un poco informato presso i compagni cinesi sulla realtà della Cina contemporanea sa che la messa in scena di uno Stato piramidale perfettamente unificato attorno a un Partito che stende i suoi tentacoli dalla cellula di quartiere fino a suo organo consultivo supremo, o di un controllo assoluto delle comunicazioni e di un sistema tecnologico di sorveglianza generalizzata alleati a una repressione spietata che avrebbe finito per abolire l’idea stessa di dissidenza, non è che un articolo di propaganda. Il successo di questo cliché poggia solo sul fatto che mette apparentemente d’accordo lo Stato cinese con i suoi detrattori “liberali”, entrambi interessati a esagerare il suo grado di perfezione – chi mirando a dissuadere i suoi cittadini da qualsiasi ribellione, chi mirando a suscitare un’indignazione inorridita. La realtà del potere cinese è molto più frammentata, molto più assemblata, molto più debole di così. Il rapporto tra verticalità burocratica e orizzontalità “sociale”, tra centralità e località, molto più opaco, informale, arcaico che stabilito. La tecnologia dis-funziona come ovunque, e gli abitanti del paese, anche se presi in un processo di modernizzazione tanto aggressivo quanto assurdo, tanto potente quanto atomizzato, anche se impegnati in una mobilitazione totale che ha i mezzi per le sue ambizioni, non sono più subalterni del primo europeo venuto dalle manovre di potere, dalla devastazione ecologica e dalla rapacità capitalista. Niente è più precario del “mandato del Cielo”. E niente si difende più ferocemente.
Ma ciò che importa a noi, e che costituisce la novità degli ultimi quarant’anni, è piuttosto che al termine di un confronto dialettico tra il pensiero tradizionale cinese e il pensiero “occidentale” una generazione di pensatori cinesi ha finito per nutrire un progetto imperiale per il mondo che sorpassa largamente il “socialismo con caratteristiche cinesi” caro a Jiang Shigong. Tianxia – “Tutto sotto lo stesso cielo” – è il nome in codice comune di questo progetto. La Tianxia è diventata una tale banalità che il Consiglio d’informazione di Stato può proclamare tranquillamente, in un documento recente, “l’iniziativa cinese di sviluppo della cooperazione internazionale trova la sua origine nella filosofia cinese della grande Armonia di ‘Tutto Sotto il Cielo[…] avendo come valore tradizionale ‘tutto quanto è sotto il cielo è una grande famiglia e condivide lo stesso destino’”. Nel 2017, l’ultima sezione del rapporto del XIX Congresso del PCC commentava già così: “quando la Via prevale, il mondo è condiviso tra tutti”. – “un ideale finale che incoraggia l’interezza del Partito e il popolo di tutta la nazione”, secondo il commento lievemente entusiasta di Jiang Shigong, La Tianxia ha perciò una versione marziale, schmittiana, e insieme una più mielosa, più consensuale, quasi socialdemocratica – come quella di Zhao Tingyang, per esempio. E queste due formalizzazioni si contrappongono pressappoco come le due braccia di una tenaglia. Il merito di Zhao Tingyang è di sviluppare la proposta imperiale, articolandola suadentemente, fino in fondo. Opponendosi a una storia mondiale centrata su quella del colonizzatore europeo, egli propone il modello della Tianxia elaborato dall’antica e mitica dinastia Zhou come ideale regolatore per il mondo contemporaneo. “Il concetto di Tianxia ha come prospettiva l’avvento di un sistema mondiale il cui soggetto politico sarebbe il mondo in sé, un ordine di coesistenza la cui unità politica sarebbe il mondo nella sua totalità. […] Prendere il mondo come sistema di misura per interpretarlo come un esistente politico globale, non è altro che il principio secondo il quale ‘non c’è niente oltre la Tianxia’ […] Il sistema Tianxia è solamente inclusivo e non esclusivo. Sopprime l’idea stessa di straniero e di nemico […] Ogni paese o zona che non ha ancora aderito all’ordine della coesistenza proprio del sistema Tianxia sarà invitato a farlo […] Tianxia, è un mondo che fonde il mondo naturale, psico-sociale e politico. […] Il sistema di infeudamento nella Tianxia della dinastia degli Zhou ha instaurato una ‘rete terrena’ che lega il territorio del mondo in un sistema reticolare con una struttura gerarchizzata […] Allo stesso tempo, anche se la gerarchia contravviene ai valori di uguaglianza, essa resta comunque necessaria al buon funzionamento delle società. Il sistema dei valori ha le sue ragioni, la realtà ha le sue. Concretamente, in quanto ‘rete terrena’, il sistema Tianxia degli Zhou possedeva un regno sovrano che soprintendeva al mondo […] Lo stato assicurava la responsabilità del mantenimento dell’ordine pubblico nell’insieme del sistema […] La Cina è un paese che ha in sé una struttura tipo Tianxia, ossia l’idea della Tianxia realizzata in un solo paese […] La globalizzazione creata dallo sviluppo estremo della modernità ha in effetti attratto tutti gli uomini sotto un giogo onnipresente e inestricabile […] è un mondo che ha fallito. La globalizzazione è in apparenze l’affossatore generato dalla modernità stessa. […] è un disastro certo, ma è anche un’opportunità per creare nuove regole del gioco […] D’altronde, Dio non ha detto che il Messia è la democrazia […] le storie di profeti appartengono ai profeti e le storie della democrazia alla democrazia […] la vera storia del mondo non è ancora cominciata […] Ciò che conoscerà una fine, è l’era moderna, non la storia”.
La questione non è sapere quando lo scettro del mondo passerà definitivamente nelle mani della Cina. Quello che importa è rendersi conto che la governamentalità cinese funge già da modello per le forme occidentali di esercizio della potenza. Essa ha già vinto. Solo la nostra ignoranza di ciò che realmente è ce la maschera ancora. Palesemente, sono i governi del mondo nel loro insieme a adocchiare con invidia la libertà di manovra del regime cinese. Persino il Consiglio di Difesa col quale Emmanuel Macron tanto si diletta a regnare, non è che una pallida imitazione del Comitato di Difesa Nazionale di Xi Jinping. Chi viene scimmiottato quando si estende simultaneamente il dossieraggio della popolazione, il controllo delle reti sociali, le prerogative della polizia, e si dissuadono i media dal seguire le manifestazioni, descritte in ogni caso come raduni d’irresponsabili? O quando ci si lancia in una crociata contro il “separatismo”? A nessuno ricordano qualcosa le condanne giudiziarie per corruzione che hanno sanzionato a intervalli regolari la perdita di favore di questo o quel clan politico? Il modo stesso che il burocrate occidentale ha di duplicarsi in un capitalista, ormai, non fa che mimare una tradizione cinese millenaria. Più sostanzialmente, ciò che traduce l’egemonia simbolica della Cina è che si espande ovunque un esercizio del potere fondato, in ogni ambito, sull’edizione centrale, opaca e apparentemente neutra di norme, piuttosto che sull’esplicitazione della Legge. Quest’impero delle norme e del normale si esprime eticamente con l’abitudine ormai universale che hanno i nostri contemporanei di valutarsi tra loro, di notarsi tra loro, di sorvegliarsi tra loro, abitudine che rende superflua l’introduzione di un sistema centralizzato quale il Sesame Social Credit System. Dunque sono evidentemente cinesi il Corona-Pass e gli ostacoli posti al movimento dei cittadini cattivi, la messa al bando dei dividui a rischio. Ed è cinese in modo eclatante la sostituzione in corso dell’individuo biologico produttore e consumatore al soggetto di diritto. Maledettamente cinese è il segreto che avvolge ogni giorno di più l’esercizio del potere reale, che sia al vertice delle imprese o degli Stati, mentre viene imposta alla “gente” una trasparenza crescente e sempre più “coprodotta” – la proliferazione simultanea delle città proibite e degli spioni. La strutturazione invisibile del reale a mezzo degli algoritmi unita alla visibilizzazione di ogni gesto della vita quotidiana procede dalla più antica teoria cinese dell’impero, non meno dell’auto-sorveglianza che essa genera. Non è solo la fretta di dispiegare il 5G a venire dalla Cina, ma anche il progetto di “civilizzazione ecologica” ad alta tecnologia che serve a giustificarlo, e l’arruolamento moraleggiante dei cittadini in questa commedia. L’epidemia che si è propagata nel mondo dal cuore industriale del paese ha solo rivelato quanto la governamentalità cinese costituisse già da tempo il paradigma universale. La mobilitazione totale nella guerra al “nemico invisibile” dichiarata da Xi Jinping ha trovato i suoi ventriloqui patetici nella maggioranza dei dirigenti mondiali. L’esperienza folle dell’isolamento generale imposto alla regione di Wuhan – versione radicalizzata dal potere cinese di un modo di gestione sicuritaria delle epidemie immaginato dall’antiterrorismo americano all’epoca di Dick Cheney – ha calamitato la gestione mondiale dell’epidemia. È tutto un sistema di diffidenza organizzata di ciascuno verso tutti, con la maschera come simbolo, che si è imposto “spontaneamente” ovunque, tutto un ethos della sottomissione rassegnata a qualsivoglia norma stravagante che si è affermato come virtù civica con il pretesto della “solidarietà”. È tutta una naturalizzazione del fatto governamentale che si è insinuata giorno dopo giorno con il pretesto inarrestabile di contenere la diffusione del virus. L’idea che governare è seguire gli imprevisti della Natura e che il potere si confonde idealmente con l’ordine delle cose, incantava già Quesnay nel XV secolo nel suo elogio del dispotismo in Cina. Alla fascinazione per la politica cinese ha risposto, per tutto questo periodo, la costernazione al cospetto della politica americana. Si può sostenere, con i marxisti di Chuang, che “il Partito comunista cinese funziona come un’avanguardia per la classe capitalista mondiale” e che “le sue sperimentazioni sono importanti precisamente perché si situano sulla prima linea dell’espansione del capitale oggi, al tempo stesso nelle sue dimensioni industriali e finanziarie, e vengono adattate al confronto con gli stessi limiti dell’accumulazione alle sue scale maggiori” (Social Contagion).
Per quanto ci riguarda, rinviamo a quanto scrivevamo vent’anni fa nel capitolo di Introduzione alla guerra civile consacrato all’Impero. Appoggiandoci agli scritti di un “legista” del III secolo prima della nostra era, Han Fei Zi, affermammo che “il dominio imperiale, come noi cominciamo a conoscerlo, può essere qualificato come neo-taoista” (Tiqqun 2). È noto che la prima dissertazione di Mao Zedong che si conserva, di quando aveva 19 anni, consisteva in un’apologia del crudele Shang Yang, il fondatore del “legismo”, e che egli non si è mai distaccato da questo amore di gioventù. E in effetti è difficile non vedere nella Rivoluzione culturale un’applicazione scrupolosa della famosa massima di Shang Yang: “Bisogna sempre distruggere quello che si è prodotto […] Governare è distruggere: distruggere i parassiti, distruggere le proprie stesse forze, distruggere il nemico”. Si sarà più sorpresi di vedere Xi Jinping riferirsi ormai così regolarmente e così esplicitamente al legismo, come nel “Documento 9” del 2013 incentrato sulla “situazione nella sfera ideologica” e indirizzato dal Comitato centrale ai quadri del Partito comunista cinese. Xi Jinping vi dettaglia “i sette indiscutibili”, versione modernizzata del discorso sui “cinque vermi” di Han Fei Zi. Egli enumera le tare che nuocciono allo Stato impedendo l’unificazione del pensiero, che è escluso che si dibatta, ossia: “i valori universali, la libertà di stampa, la società civile, i diritti civili, gli errori storici del PCC, il capitalismo di connivenza in seno al potere e l’indipendenza giudiziaria”. Bisogna credere che, per uno spirito moderatamente lucido, fosse già abbastanza evidente nel 2001, quando apparve Tiqqun 2, che l’Impero non era tanto americano quanto cinese. Ciò che il corso degli eventi, da allora, si è incaricato di confermare – peraltro come press’a poco ogni riga di quel capitolo di Introduzione alla guerra civile.

L’intreccio
Yuk Hui è ingegnere e pensatore. La cosa è tanto rara da dover essere sottolineata. Non è da un ingegnere, in linea generale, che ci si aspetta che metta in questione le categorie in vigore, o che resti fedele al suo ingenium, al suo genio personale. Yuk legge correntemente Schelling in tedesco tanto quanto programma in C++. Familiarizza con Heidegger quanto col Yi King, con la filosofia ellenica quanto col nuovo confucianesimo o con la scuola di Kyoto. Sono davvero pochi, in questo mondo, coloro che praticano la metafisica aristotelica e l’ontologia Web con altrettanta scioltezza. In un’epoca dove i beni fisici circolano tanto liberamente quanto quelli metafisici restano circoscritti al loro suolo natio, buoni solo a subire le ingiurie del tempo. Yuk con La questione della tecnica in Cina realizza un lavoro che non ha equivalenti. Un lavoro che non è solo opera di traduzione, destinata a un pubblico occidentale, di un pensiero cinese spogliato di ogni forma di orientalismo, ma anche un’opera di sintesi della storia del pensiero cinese e occidentale, destinata al pubblico cinese. Perché, in Cina, è persino l’intelligibilità del passato che un secolo di rivolgimenti storici e di confronto con l’Occidente ha compromesso, facendone la materia di ricostruzioni successive e successivamente opportune. “La Cina sogna il suo passato, ma è diventata un paese senza memoria. […] Il passato sembra a portata di mano, ma non risponde più”, afferma Jean-François Billeter nel suo Chine trois fois muette. Sarebbe un errore ascrivere il lavoro di Yuk all’oscillatorio movimento comparativista, che ha portato tanti intellettuali cinesi nei decenni scorsi a misurarsi con la tradizione filosofica ellenica e tedesca soprattutto, per concluderne meccanicamente la superiorità della tradizione nazionale. Yuk non lavora per alcun partito. Se pure s’inscrive negli scambi ben temperati del campo accademico, il suo pensiero segue la necessità del proprio sviluppo. Egli lavora dunque, considerevolmente e finemente, per noi. Bisogna legge La questione della tecnica in Cina come un dono immenso, che solo lui poteva confezionare. A prezzo di un anacronismo ben leggero, Yuk può essere visto come l’avanguardia pensante della generazione planetaria sotto i piedi della quale il suolo è stato rubato con l’annuncio dell’“antropocene” – per dirla alla svelta, tanto è palese che il termine lanciato da Crutzen nel 2000 per designare una “epoca geologica dominata dall’umanità” resta affetto in modo congenito dallo stesso prometeismo del quale constata il disastro: ma come potrebbe questa modernità così ottusa rinunciare al piacere di celebrare la sua stessa orazione funebre, e di farlo nel sua lingua? Il pensiero di Yuk è perciò fatalmente planetario: non si esce da un frangente tanto cattivo, da una catastrofe dalle radici tanto profonde e di estensione universale, senza uno sforzo di sintesi smisurato da un punto di vista storico e geografico. Non solo (tale pensiero, NdT) è umile, ma rende umili. In poche righe, disegna il teatro completo delle operazioni metafisiche contemporanee. Bisogna vedere con quale sovrana dolcezza egli liquida il costruttivismo molliccio di Latour e l’impotenza chiacchierona della decostruzione post-coloniale, la gigantomachia accelerazionista e il post-modernismo disperato di Lyotard, le brillanti dissertazioni prive di oggetto di Meillassoux e l’ontologizzazione della tecnologia in Stiegler come in Sloterdijk. Perché è proprio il problema dei filosofi: hanno bisogno di prìncipi, come del resto gli artisti.
La questione della tecnica in Cina è un libro scritto per una generazione d’ingegneri refrattari al destino al quale sono promessi e che il capitale non riesce più a mettere al lavoro senza fare scintillare ogni sorta di esca smaltata di verde. Per tutti i diplomati che disertano i loro lavori di merda diventando fornaio, meccanico, carpentiere, facchino od ortolano, e si sentono improvvisamente rivivere. Per coloro che non riescono più a divertirsi con i giochetti aporetici della filosofia. Per i nuovi asceti che si accorgono che tutte le tecniche spirituali dell’universo non riusciranno mai a costruire alcun mondo abitabile. Per quelli che si dicono che il corpo a corpo tra pensiero cinese tradizionale e tradizione europea può essere di più di un supplemento d’anima si può fare del corpo a corpo tra pensiero cinese tradizionale e tradizione europea qualche altra cosa che un supplemento d’anima per quadri in traiettoria ascendente alla maniera di François Jullien. L’arroganza maniaco-depressiva dell’uomo Occidentale, sconfitta come mai nel suo progetto di dominio, troverà forse qui qualche sollievo. Egli sarà sollevato nell’apprendere da Yuk che una civilizzazione di 5000 anni considera il cuore come l’organo della conoscenza più alta – la conoscenza intuitiva – , che la risonanza tra l’essere e il mondo può fondare l’esperienza della verità come dell’azione eroica, o che la partecipazione al più grande di sé non deve appoggiarsi alla gruccia del sociale né a quella del misticismo. Dopo tutto il tempo che il soggetto Occidentale cerca un rimedio al suo dis-orientamento, Yuk arriva forse a proposito. Non è meno un segno dei tempi che l’ultimo rampollo della Teoria critica tedesca – Hartmut Rosa – invochi sola risonanza. Che al termine di un secolo ad affannarsi sulla categoria di alienazione senza arrivare a trarne una prospettiva positiva meno sinistra del “pieno possesso di sé”, la Teoria critica pervenga a pescare nella tradizione cinese la sua definizione di felicità, ossia di comunismo, ecco qualcosa non privo di significato. Fa pensare a quei medici francesi atavicamente meccanicisti che, esauriti i rimedi, vi mandano da un agopuntore “anche se non ci credono, ma per semplice pragmatismo, perché funziona” – come se la loro epistemologia non fosse un po’ presa in castagna, come se la loro scienza non vi si trovasse fondamentalmente messa in crisi. Se si segue il corso delle scoperte nelle neuroscienze – mio Dio!!, l’Io, la coscienza e l’intenzionalità come si comportano male! – o anche solo in biologia vegetale, bisogna dispiegare una negazione sempre più attiva perché la metafisica occidentale non finisca rovinata dagli avanzamenti nelle sue stesse ricerche. A colpo sicuro, questa civiltà dalle gomme bucate dovrà moltiplicare le toppe orientali se vuole continuare a girare. Sembra propria la sua ultima speranza. Al saccheggio delle risorse materiali segue dunque il saccheggio delle risorse spirituali. Casca bene: non mancano antropologi specialisti in “ontologie alternative”, e che cercano lavoro.
La “questione della tecnica” è sicuramente una delle questioni più malposte del XX secolo. Nella tecnica, alcuni hanno voluto vedere il completamento protesico necessario a una specie umana incompiuta, disadattata, precaria – peccatrice, per dirla nella lingua agostiniana originaria – o l’espressione della sovrabbondanza vitale di questo “animale da preda che è l’uomo” nella sua “lotta contro la Natura, che è senza speranza, ma sarà perseguita senza fine” (Spengler, L’uomo e la tecnica). Altri hanno preferito decifrare l’evoluzione tecnica come una spiritualizzazione progressiva dell’uomo, tendente all’unificazione della specie in un “cervello globale”, ovvero all’unione con Dio, o come l’esteriorizzazione progressiva delle facoltà umane spinta a un punto tale da partorire l’ultimo uomo, spettro abbrutito trattenuto nel “corpo di un mago illusionista” (Leroi-Gourhan, La memoria e i ritmi), che erra sulla superficie di una terra divenuta inospitale. Quello che colpisce è che la tecnica è sempre considerata secondo una supposta “natura umana”, Lo stesso Heidegger parte, nella sua considerazione precoce sulla techné, da “la definizione greca dell’uomo come “ciò che vi è di più inquietante” (Introduzione alla metafisica). Ora, Marshall Sahlins ce ne ha dato sufficienti ragguagli: se vi è un’illusione occidentale, è proprio la “natura umana”. Di contro, gli stessi che, come Spengler, pretendono il contrario, tendono a pensare la tecnica a partire dallo strumento, come se esso costituisse una mediazione operativa eticamente neutra tra il soggetto umano e il mondo. Perché ciò che caratterizza lo strumento è la distanza netta che esso mantiene rispetto al soggetto che lo maneggia, il suo modo di restargli inessenziale, vestimentario, di lasciarlo intatto. Instrumentum, in latino, è l’ornamento, l’abbigliamento, l’arredamento, eventualmente l’armamento. Ora, precisamente, non vi è uno strumento. Non vi sono gesti né di relazione né d’uso che lascino l’essere umano inalterato. Per l’essere sano, il rapporto a sé, il rapporto agli altri e il rapporto al mondo sono una sola e stessa cosa. Formano un’unità “trasduttiva”, come direbbe Simondon. È proprio la loro disgiunzione che rende malati, che altera. Nell’attività tecnica, il risultato non cancella per nulla il processo. Non è il soggetto che dispone del mezzo, ma il mezzo che dispone il soggetto. La finalità perseguìta “grazie allo strumento” è sempre un mezzo. Il fine non viene mai a capo dell’immanenza. La vera efficacia dell’azione risiede al suo interno, nei suoi effetti incidenti e non nei suoi effetti esteriori. Tutto è nell’incidente. Si può dire questo con Simondon, “la normatività tecnica è intrinseca e assoluta” (L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione). Una volta isolata la “mediazione tecnica”, si può allora fare una storia autonoma e trionfale del progresso tecnico dove tutto è cumulativo, dove non c’è mai ritorno indietro, ovvero una scienza comune alla “tecnologia” di Leroi-Gourhan, ricalcata sul modello della biologia, dove “gli elementi tecnici si succedono e si organizzano come organismi viventi” e dove “la creazione umana, con la sua continuità, ricalca la creazione universale” (Ambiente e tecniche). Si vede bene qui come non è molto lontano il “punto Omega” del Padre Teilhard de Chardin, verso il quale tutta l’evoluzione cosmica è concepita convergere, in Cristo. Questo genere di “visioni” finiscono abbastanza inevitabilmente per decollare in verticale verso Marte, la singolarità e la sfida dell’immortalità. Non per caso sovvengono nei momenti nei quali gli umani, confrontati all’immensità dei loro disastri, cominciano a domandarsi se non siano per caso “animali sbagliati”. L’indomani della Seconda Guerra Mondiale ha avuto i suoi Tailhard, i suoi Ducrocq e i suoi cibernetici: la nostra epoca ha i suoi Harari, i suoi Elon Musk, i suoi Peter Thiel e i suoi Bill Gates. L’ultima parola, in materia, torna a Oppenheimer che recita subito dopo Hiroshima, le lacrime agli occhi, questi versi della Bhagavad Gita: “Io sono la morte che avanza, Io sono il distruttore dei mondi”.
Il grande merito della nozione di cosmotecnica come la elabora Yuk è di spezzare la concezione strumentale della tecnica, di farla tornare sulla terra senza perdere l’orizzonte del mondo. Non solo ogni tecnica è situata, sopravviene e dà vita a un tipo di mondo specifico, ma determina anche un regime di oggettivazione che gli è proprio. Ogni tecnica è anche tecnica di sé – è tipicamente questo che è stato perso di vista nel passaggio dall’alchimia alla chimica, per esempio. Ogni tecnica è segnata da una modalità singolare di presenza al mondo e costituisce un modo di farla consistere localmente: è a un tempo cosmomorfa ed etopoietica. In altri termini: non la si comprende che in rapporto a una forma di vita. Mauss aveva già tentato, con le sue Tecniche del corpo, di pensare le tecniche indipendentemente dal feticismo dell’utensile e della macchina concentrandosi sugli effetti del cinema americano sull’andatura delle donne del suo tempo, o sulle maniere di nuotare e di correre. In fondo, niente è più vicino a una teoria delle forme di vita della teoria dell’andatura di Balzac. Per illustrare la cosa, prendiamo il tipo stesso che ha raffigurato il “progresso” nel XX secolo – l’irruzione quasi simultanea negli anni 1920-1930 della stanza da bagno moderna, della camera da letto standard, dell’architettura e dell’urbanesimo metropolitani, dell’automobile di massa, del lavoro tayloristico, della pubblicità e dei problemi di ottimizzazione sentimentale propri della corrispondente società. Si può dire che ciò che conta qui è la finalità prevista, l’efficacia maggiorata: un’igiene migliore, meno perdite di tempo e d’energia per gli operai, una maggiore felicità famigliare, più luce e spazio nei nuovi alloggi, una maggiore mobilità su tutti i piani, in breve: il “progresso”, la “massimizzazione dei possibili”, come direbbe il lugubre Ismaël Emelien. O invece ci si può riferire alla dimensione etica di questa evoluzione tecnica massiva, alla tessitura del “mondo” che configura. E sarà il Babbitt di Sinclair Lewis, per la versione americana, o il Babichev di Jurij Oleša in Invidia, per la versione sovietica. Negli anni 1920 comunque si diceva “un babbitt” per designare quel nuovo tipo umano. Chiunque abbia letto questi due romanzi pieni di tenerezza esiterà un poco a parlare di “progresso”. Tanto quanto non c’è “L’Uomo” non c’è “La Tecnica” come intendono porli all’unisono tecnofili e tecnofobi. Se dopo un buon secolo la critica della tecnica langue nel vuoto, è perché essa si ostina a interpellare una “Umanità” che non esiste.
Trarre la dimensione etica da ogni tecnica, è appunto ciò in cui può aiutarci la tradizione cinese, specialmente taoista, che stacca la natura intima degli esseri dalla codificazione sociale, dagli attributi visibili, dal mondo delle convenzione e da quello della retorica, dall’intenzionalità e dall’agire apparente, dallo stesso linguaggio. “Questa maniera di scontrarsi con i limiti del linguaggio è l’etica”, scriveva Wittgenstein a Schlik nella lettera del dicembre 1929 nella quale testimonia della sua simpatia per Heidegger. Ogni tecnica è incorporazione involontaria del mondo: e l’incorporazione perfetta, la perfetta padronanza implica, è noto, la sparizione di ogni volontà. Questa intesa etica della tecnica, che si esprime così bene nelle due aneddoti di Zhuāngzǐ usati da Yuk, quello del macellaio e quello dell’eremita che innaffia il suo giardino, la si trova anche in Adorno quando scrive nei Minima Moralia: “Non si fa giustizia al nuovo tipo umano senza la coscienza di ciò che subisce continuamente, sin nelle fibre più riposte, dalle cose del mondo circostante. Che cosa significa per il soggetto che le finestre non hanno più battenti da aprire, ma lastre di vetro da far scorrere con violenza, ?”. E in effetti, più il soggetto umano si figura sovrano, meno si accorge a quale punto è affetto dalle tecniche alle quali ricorre, e più diventa il gioco dei suoi stessi “strumenti”. La ragione strumentale è uno scherzo della ragion etica. Per fare un esempio tanto banale quanto evidente: ognuno sa quel che essere al volante di un’auto può fare della persona più piacevole – quanto al “possesso automobilistico”, ci sarebbero d’altronde molto da dire sul rapporto tra governamentalità neoliberale, condotta delle condotte e propulsione motorizzata: non è sicuro che si sarebbe potuto fare tanto facilmente di ciascuno il pilota tanto docile e tanto furbo della sua stessa esistenza senza averne fatto, preliminarmente, un conducente.
Per dirimere questa questione tanto aggrovigliata della “tecnica” in Occidente, un cauto abbinamento della genealogia famosa della tecnica a partire dallo “sfasamento dell’unità magica primitiva” in Simondon – tanto caro a Yuk – e della meno rinomata genealogia della religione in Caillois quale si presenta ne “Il grande Pontiere”, potrebbe darci qualche aiuto. In Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, Simondon descrive la maniera con la quale l’apparizione dell’oggetto tecnico, che “si distingue dall’essere naturale nel senso che non fa parte del mondo”, ha rotto l’unità magica primitiva dove “è a un universo percepito come ambiente che l’uomo si trova legato”. Egli spiega la nascita dell’oggetto tecnico a partire dall’alterazione del sentimento cosmico di partecipazione, e l’avvento della religione per contraccolpo come risposta a questa alterazione – avendo la religione come scopo di restaurare la pienezza di tale partecipazione. Egli descrive così lo sfasamento del mondo magico come duplicazione in tecnica da un lato e in religione dall’altro. Caillois, a sua volta, propone una genealogia della religione a partire dal fatto che il capo della religione romana è detto “pontifex” – colui che fa ponti. Egli racconta come una sera, mentre accompagna Mauss alla sua fermata del bus su un viale, questi tronca, nel mezzo di una discussione appassionata, il dibattito immemorabile – vecchio quanto Lattanzio se non Cicerone – riguardo all’etimologia di religione. Per Mauss, è evidente, le religioni erano “nodi di incannucciata che servivano a fissare tra loro le travi dei ponti”. L’idea, qui, è che la costruzione di un ponte – simbolo stesso dell’oggetto tecnico – minacciava l’ordo rerum, la “disposizione degli elementi dell’universo (e anche delle istituzioni) come gli Dei l’hanno concepita e stabilita”. “Costruire un ponte è un sotterfugio sacrilego che, come tale, compromette l’ordine del mondo e che non potrebbe che attirare una terribile punizione sul suo autore, la sua famiglia, la sua nazione. Bisogna pagarne il prezzo”, scrive Caillois. È quel che fa il pontifex, sacrificando agli Dei, pronunciando le formule adeguate, procedendo ai riti prescritti, disponendo le sue religioni. Egli ristabilisce l’equilibrio minacciato: restaura l’ordo rerum trasgredito. Fa in qualche modo da parafulmine dell’ira degli Dei. Caillois descrive così, da un’angolatura complementare, lo sfasamento compensativo della tecnica e della religione teorizzato da Simondon. Ma quel che importa, è che entrambi interpretano la nascita della tecnica a partire dalla partecipazione cosmica dell’uomo all’universo – partecipazione che fa da sfondo alla cosmotecnica cinese come esposta da Yuk. Questa genealogia illumina, per inciso, la natura della tecnologia contemporanea, che miseramente si ostina a moltiplicare le versioni parodistiche di tutte le operazioni attribuite tradizionalmente alla magia – la telepatia diventa così telefonia; l’azione a distanza telecomando; la provocazione dell’apparizione degli spiritidiventa invasione d’immagini e di schermi; i viaggi extra-corporei spedizioni spaziali; e la ricerca alchemica o taoista dell’immortalità un progetto di ricerca del Singularity Institute di Google. Non c’è alcunché, compreso l’intelletto agente caro ad Averroé, che non abbia trovato nel cloud la sua materializzazione difettosa. La prestidigitazione tecnologica vorrebbe in tal modo ricostruire l’unità magica primitiva scimmiottandola grottescamente. Essa s’immagina di operare una sintesi dialettica tra tecnica e religione fino a colmare lo scarto dovuto al loro sfasamento, ma di fatto produce solamente una tecnicità autistica, invece di una pienezza ritrovata, una sacralità al ribasso e una infantilizzazione generale. L’utopia tecnologica in corso di sperimentazione di una umanità confinata a casa si comprende a partire da qui: essa ci propone semplicemente di abitare la nostra stessa acosmia. Pretende di risparmiarci l’esperienza della perdita del mondo privandoci della sua esperienza. La riduzione del mondo alla casa porta a termine la completa domesticazione. Tutto è configurato perché il nuovo cittadino imperiale, tele-producendo, tele-consumando e tele-vivendo dietro lo schermo del suo smartphone o del suo computer si percepisca come il centro sovrano del suo mondo. Mai è stato così libero di comandare, di “navigare”, di informarsi, di esprimersi, e mai è stato insieme a tal punto il burattino degli algoritmi e delle potenze organizzate. Bisogna che sia prigioniero perché venga sommerso da tante offerte di evasione! È un sequestro del mondo che è all’opera. Simondon affidava i rincontri felici tra l’universo tecnico e gli umani a quella che anche lui chiamava “tecnologia”, ma in un senso completamente differente. Ecco, in negativo, ciò che permette di pensare, anche, la nozione di cosmotecnica.
Chi dice “cosmotecnica” dice dunque pluralizzazione dei mondi, dice centralità dell’elemento etico, dice attenzione al minimo gesto, dice continuità fondamentale tra individuo e universo, dice eterogeneità delle forme di vita, dice fine della modernità come unificazione-totalizzazione umana sull’asse del tempo astratto, dice lutto della grande odissea occidentale del progresso, dice smantellamento della tecnologia come costituzione metafisica in sistema operativo mondiale delle tecniche più redditizie, una volta strappate queste ai mondi dai quali provengono. Da un punto di vista cosmotecnico, vi è un piccolo problema con l’Occidente in generale, e più in particolare con la modernità in quanto ha esteso la sua malattia alla scala del pianeta. Si possono seguire Alfred Sohn-Rethel e George Thompson quando attribuiscono la nascita in Grecia della speculazione filosofica, di una intellettualità separata, e perché no della geometria formalizzata, all’autonomizzazione del valore generata dall’apparizione della moneta nel quadro di una società così profondamente mercantile quale era l’impero ateniese antico. Non mancano le prove, anche nel Medio Evo europeo, del legame tra sviluppo delle “arti meccaniche” e accumulazione precapitalistica; e che essa fosse affare di un ordine benedettino che aspirava così a “restaurare l’uomo caduto” (Didascalicon, Ugo di San Vittore) o delle città della nascente borghesia. Di contro, “non vi è dubbio che lo scacco dell’ascesa al potere della classe mercantile, nello Stato, è alla base stessa della mancata apparizione di una scienza moderna in Cina”, constata Needham in La science chinoise et l’Occident. Chi dice “cosmotecnica” dice quindi fine della sussunzione mercantile, fine del capitalismo in quanto sistema tecnologico e fine, anche, della favola della modernità. Heidegger definì come coprente la tecnica moderna, come se facesse schermo alla venuta alla presenza anarchica dei fenomeni, allo zampillare del multiplo – “Non cercate nulla dietro ai fenomeni: essi stessi sono la teoria”, insisteva Goethe. Ma è la modernità stessa che procede per copertura: come ha mostrato Jean-Baptiste Fressoz nella sua L’Apocalypse joyeuse, non c’è stata una fase d’innocenza tecnologica della modernità che avrebbe avuto fine con la presa di coscienza dei suoi “limiti” – la devastazione che ha proiettato sull’ambiente come nelle interiorità. Non c’è stato un punto a partire dal quale la modernità, divenuta riflessiva, si sarebbe mutata in “postmodernità”. In La Fin du monde par la science, Eugène Huzar prevedeva già, nel 1855, che l’attività industriale avrebbe potuto alterare il clima terrestre: e Huzar era letto e dibattuto, diffusamente. Ogni offensiva di modernizzazione ha incontrato resistenze e critiche, e le ha schiacciate. Dopo ha scrupolosamente cancellato le tracce delle sue malefatte, per conservare nella sua cronaca, al capitolo delle aberrazioni toccanti, solamente quei “romantici” che si sono limitati a proteste impotenti. “La storia della tecnica è la storia dei suoi colpi di forza, e degli sforzi ulteriori per normalizzarli” (Jean-Baptiste Fressoz, L’Apocalypse joyeuse). Fin dalla sua relazione del 1912 al Congresso, Taylor assume che l’introduzione del management scientifico partecipa di una guerra contro gli operai – una guerra condotta “per il loro bene”, evidentemente. Detlef Hartmann, il solo teorico operaista tedesco conseguente, ha ampiamente mostrato come il progresso tecnologico deve essere compreso: come offensiva continua, a fuoco di fila. La modernità è passata sui corpi e sulle anime di tutti coloro che si sono messi sul suo cammino. Essa si è accontentata semplicemente di produrre i meccanismi di disinibizione che rendono possibile l’incoscienza modernizzatrice – e continua ancora oggi con la promessa di un capitalismo verde. Analogamente, non c’è da “superare la modernità”: il superamento, in quanto negazione metodica del dato, costituisce il gesto stesso della modernità; e “ciò che è dato sono – per così dire – delle forme di vita” (Wittgenstein, Ricerche filosofiche).
La modernità non è un periodo e nemmeno un progetto di aggressione e di sopraffazione che si realizzerebbe nella storia come un automa. La modernità è un campo di battaglia fumante, costellato di cadaveri e di mondi spossessati, sfigurati, bruciati, derubati, asfaltati e infine museificati – in Europa come in Cina. Non bisogna essere ingiusti coi vinti, coi nostri morti, almeno se speriamo di vincere un giorno. Perché è da loro che viene la nostra forza, sono loro che ci rendono indistruttibili. Non siamo soli davanti alla modernità. Siamo accanto alla coorte dei vinti, con tutto l’esercito dei nostri morti. Di fronte all’offensiva in corso del capitalismo verde, che giura di prendersi cura del corpo dei viventi come di quello del pianeta per meglio svolgere la sua opera di saccheggio, possiamo appoggiarci senza timore sull’autentico desiderio d’apocalisse che impregna i nostri contemporanei. Benjamin, alla fine di Strada a senso unico (1928), in un frammento intitolato “Al planetario” fa questa considerazione molto yukiana: “Niente distingue l’uomo antico dal moderno quanto la sua dedizione ad una esperienza cosmica che quello venuto dopo si può dire non conosca. […] L’aberrazione che minaccia i moderni è di ritenere quest’esperienza irrilevante, trascurabile, e di lasciarla all’individuo come estatica contemplazione di una bella notte stellata.. No, essa tornerà senza fine ad imporsi, e allora popoli e stirpi le sfuggiranno altrettanto poco di quel che ha dimostrato, nel modo più spaventoso, l’ultima guerra, che è stata il tentativo di un nuovo, mai esaudito connubio con le potenze cosmiche. […] Ma poiché l’avidità di profitti della classe dominante contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue.”. Una cosa è l’annuncio da parte dei sapienti della prossima estinzione dell’umanità che ognuno sente ma nessuno ascolta – come volete credere alla fine del mondo quando colui che ve l’annuncia, lo scienziato, si caratterizza precisamente per colui che non ha mondo, ma solo un laboratorio e dei colleghi, che è “l’individuo puro” di Simondon? Bisogna essere assenti a sé stessi quanto Bruno Latour per arrivare a gridare come faceva nel 1982: “ Datemi un laboratorio, e solleverò il mondo”. Un’altra è il desiderio d’apocalisse diffuso che corrisponde, nei nostri contemporanei, a una sete spaventosa di ritrovare un contatto con il cosmo, di sbarazzarsi di tutta l’apparecchiatura tecnologica che li rinserra, fosse pure al prezzo di una catastrofe. La loro sordità al Vangelo dell’Antropocene non è solo inerzia etica, abbrutimento consumista o difetto d’istinto di sopravvivenza; è anche paganesimo senza ritorno. Pensiamo ai bracieri e alle stelle sulle rotonde occupate in pieno inverno dai gilets jaunes nel 2018, al commissariato di Minneapolis in fiamme dopo l’assassinio di George Floyd, al cielo sopra le barricate incendiate del politecnico occupato a Hong Kong, c’è qualcosa di cosmico in ogni rivolta popolare di una certa ampiezza: c’è un mondo che si conclude e uno che rinasce – c’è apocalisse e rigenerazione.

L’epilogo
Nell’agosto del 1945, Alexandre Kojève, agente del KGB, alto funzionario speciale al ministero delle Finanze, gollista-stalinista conclamato, negoziatore degli accordi del GATT all’Havana per parte francese, ispiratore della posizione della Francia nell’ambito del piano Marshall, futuro perno, se mai ce ne fu uno, della costruzione della Comunità Economica Europa, elabora l’“Abbozzo di una dottrina della politica francese” per il dopoguerra. Tale abbozzo è rimasto famoso per la sua proposta di un “Impero latino”. Kojève vi riprende di fatto il progetto di una “Unione latina” formulato in quell’estate 1945 dal resistente occitano Jean Cassou. Questa proposta è così poco frutto delle circostanze che Kojève non cesserà di rielaborarla, e ciò fino al 1949. L’analisi che egli fa allora della posizione della Francia, e che i decenni trascorsi non hanno smentito, riposa sulla constatazione schmittiana che “gli Stati-nazione, ancora potenti nel XIX secolo, cessano d’essere realtà politiche […] Lo Stato moderno non è davvero uno Stato se non è un Impero”. Da qui, deduce la situazione della Francia come presa tra due “Imperi”: l’Impero anglo-americano che ingloba la Germania, fondato sul culto protestante del lavoro, dell’economia e che dispiega un produttivismo di tipo individualista da una parte, e dall’altro l’Impero slavo-sovietico d’ispirazione ortodossa il cui produttivismo è, a sua volta, di natura collettivista. Egli non vede altra sopravvivenza per la Francia, in particolare di fronte all’egemonia economica inesorabile della Germania, che l’edificazione di un “Impero Latino”, che raggruppi la Spagna – al modico prezzo di rovesciare Franco – , il Portogallo, l’Italia e la Francia, una sorta d’impero della non-economia che riposi su un’unità di mentalità caratterizzata da “quell’ arte degli svaghi che è la fonte dell’arte in generale, dall’attitudine a creare quella ‘dolcezza di vivere’ che non ha niente a che fare col confort materiale, da quello stesso “dolce far niente” che non degenera in semplice rilassamento perché viene da un lavoro produttivo e fecondo […] Questa mentalità comune, che implica un senso profondo della bellezza associato generalmente (e molto specialmente in Francia) a un sentimento ben marcato della giusta misura, e che permette così di trasformare nella ‘dolcezza aristocratica’ di vivere, il semplice benessere borghese ed elevare spesso fino alla gioia, i piaceri che in un altro ambiente sarebbero (e sono nella maggior parte dei casi) piaceri ‘volgari’ […] perché […] bisogna pur ammettere che è precisamente all’organizzazione e alla ‘umanizzazione’ degli svaghi che l’umanità futura deve consacrare i suoi sforzi”. Arriva fino a notare il carattere spontaneamente “municipale” del “Mondo latino” e si riferisce al “Rinascimento, che è probabilmente il periodo storico latino per eccellenza”.
Se analizziamo la situazione storica presente, non vi è dubbio che siamo di nuovo presi in una configurazione non priva di richiami a quella del 1945. Una nuova guerra fredda per l’egemonia mondiale è già cominciata: l’impero anglo-americano nel quale la Germania resta infeudata è alle prese con l’impero cinese, della cui governamentalità “autoritaria” ha in fondo già importato l’aspetto simbolico. I paesi latini, se non l’Europa intera, hanno completamente perso sul terreno sul quale si svolge la battaglia: la tecnologia e la potenza economica – senza parlare, evidentemente, della potenza militare. Servono solo a esportare segni di distinzione all’indirizzo delle classi privilegiate del resto del mondo: che sia la produzione di alimenti DOC, di articoli di lusso, di belle auto o di un turismo raffinato che viene a prosciugare gli ultimi giacimenti locali di “autenticità”. È questo formidabile declassamento storico che è stato rivelato dal mimetismo e dall’impotenza arrogante dell’Europa di fronte alla “crisi del COVID”. Il nostro destino è, un po’ come l’Italia nel Rinascimento, non solo di assistere da spettatori alla Storia in procinto di compiersi, ma di diventare il teatro impotente dello scontro tra rapacità straniere. Semplice mezzo, allora, della competizione tra la Francia, la Spagna, l’Impero e il papato, l’Italia rinascimentale si trovava in una situazione dove “dall’esterno si assumeva per essa l’indispensabile ruolo di agente storico. Essa se ne trovava press’a poco sollevata. È perciò che la politica diventa per essa un’arte. Essa fu la prima ad applicarvi la sua riflessione. Perché era stata sollevata dalla necessità di farla […] Come alla ‘fine della storia’ socialista, non è possibile non dare i tratti della civiltà italiana” (Dionys Mascolo, Le Communisme). Ritirandosi dalla lotta storica, le città italiane avevano allora trasposto la lotta sul terreno della bellezza della vita e delle città – ciò che Dionys Mascolo chiama il “socialismo estetico”, che non per caso è un socialismo comunale. Il Rinascimento, dunque, come prodotto della diserzione dal vano scontro tra le potenze storiche e come rivincita eclatante su di esse.
Detta così e trasposta nel contesto attuale, la proposta di una nuova forma di “impero latino” sospinto non dall’apparato dello Stato ma dai mondi sottostanti e nascituri – impero che può ben beffarsi delle frontiere nazionali vista la quantità di pomodori e mozzarelle che si consumano già a Berlino – potrebbe sembrare un programma di rinuncia con l’aggiunta di una speranza di consolazione vendicativa. Non è affatto così. Vi è una profondità strategica di questo possibile epilogo storico, e che fa di Yuk un prezioso alleato. Come ha ampiamente documentato Jean-Michel Valentin ne L’aigle, le dragon et la crise planétaire, l’antropocene è un “campo di battaglia sino-americano”. L’Amazzonia brucia già dell’appetito cinese per la soia transgenica brasiliana. La risorsa dell’Artico costituisce una benedizione commerciale e un obiettivo geostrategico ancor prima di essere la causa del rallentamento un tantino spiacevole della Corrente del Golfo. La pressione che il caos climatico mondiale esercita sui prodotti agricoli è una variabile dello scontro tra gli stati maggiori militari. Ma contrariamente alla prospettive di questo autore, che vuole credere che l’intelligenza artificiale generalizzata, la transizione digitale, lo smart farming e i droni agricoli potrebbero dare vita una “civiltà ecologica”, ovvero che alla fine, piuttosto di lanciarsi in una rivalità suicida, la Cina e gli USA si riconcilieranno per la salvezza del pianeta, è palese che il progetto americano-cinese di accelerazione va contro un muro. La sua sola ragion d’essere riposa sul fatto che l’accelerazione è la sola maniera che le società moderne conoscono di stabilizzare la loro corsa insensata. L’accelerazione, come la corsa internazionale alla potenza, è anzitutto a vocazione interna. Ciò che la geopolitica non è fatta per comprendere. Nessuna crede alle finalità vantate: si tratta solo, per chiunque governa, di mantenere lo statu quo nel solo modo possibile – la fuga in avanti. Nessun progetto di geo-ingegneria rallenterà l’accumulazione di CO2 nell’atmosfera. Nessuna multinazionale arriverà a pulire gli oceani moribondi per rifarsi l’immagine dopo l’ennesimo cataclisma industriale che avrà causato. Se qualche dirigente mondiale farà finta per un giorno di prestare orecchio a Bruno Latour, sarà soltanto per guadagnare un po’ di tempo, e quindi un po’ di denaro. Bill Gates non salverà l’Africa e tanto meno il pianeta. Il petrolio non cederà il passo alle “energie verdi” se non per aggiungere alle maree nere il taglio raso di tutto quanto il mondo annovera ancora in foreste – pardon “biomasse”. La ricerca di tracce di vita extraterrestre non si fermerà che con le ultime tracce della stessa vita terrestre, cui questa sfida sarà servita a distrarre i superstiti colti da una incomprensibile inquietudine. L’agricoltura di alta precisione, o di barbarie compiuta, non rinuncerà a estendere il suo impero sterile per nulla al mondo, e sarà anzi dichiarata “biologica”, come non si distrugge ciò che il nord parigino conserva ancora della banlieue alla Doisneau se non con il pretesto di costruire eco-quartieri e palazzi HQE (haute qualité environnementale, ad alta qualità ambientale n.d.T.) – che, peraltro, resteranno disperatamente vuoti. Le pale eoliche di duecento metri di altezza non fanno che estendere e decorare la mostruosità distribuita da una rete elettrica che non rinuncerà al carbone né al nucleare. Ogni trovata tecnologica per rimediare ai disastri del capitalismo non fa che aggiungere nuove insormontabili contraddizioni a quelle precedenti. Non vi è alcuna anima ragionevole in nessun principe del mondo cui indirizzare la supplica del rallentamento e della decrescita, né alcun marchio che voglia passare dal dominio tecnologico alle cosmotecniche. Il cielo è già così vuoto per i metropolitani, che si stupiscono appena di vedervi apparire i luccicanti satelliti di Elon Musk. Per prendere le cose sul loro versante “soggettivo”, non si può che richiamarsi alla profezia di Lewis Mumford, vecchia ora di settant’anni: “Mai prima d’ora l’uomo è stato così affrancato dalle costrizioni imposte dalla natura, ma mai è stato tanto vittima della sua stessa incapacità di sviluppare nella loro pienezza i suoi tratti specificamente umani; in una certa misura, come ho già suggerito, ha perso il segreto della sua umanizzazione. La strada estrema del razionalismo post-storico, possiamo prevederlo con certezza, spingerà ancora più avanti un paradosso già visibile: non soltanto la vita stessa sfugge alla gestione dell’uomo tanto più quanto più i mezzi di vita diventano automatici, ma il prodotto ultimo – l’uomo stesso – diventerà tanto più irrazionale quanto più i suoi metodi di produzione si razionalizzeranno. In breve, il potere e l’ordine, portati al loro colmo, si rovesciano nel loro contrario: disorganizzazione, violenza, alterazione mentale, caos soggettivo”.
Si dice che il potere compatto del Partito comunista cinese con i suoi mezzi implacabili sia più in grado di operare la necessaria svolta verde rispetto alle delinquenti democrazie liberali occidentali. Qualsiasi osservatore serio e informato constata in Cina come altrove soltanto annunci altisonanti di miraggi volontaristici in forma di aborti. L’accelerazione in corso mira solamente ad assicurarsi una padronanza più completa e un inquadramento più molecolare di masse umane sempre più soggette al panico di fronte agli effetti del progresso: si tratta solo di rinserrare le maglie del filo spinato per trattenere i disertori. È una gara di velocità che oppone l’avanzata della catastrofe e la progressione del controllo. Che importa chi vince: il treno della civilizzazione tecnologica continuerà la sua corsa a un ritmo incessantemente più terrificante. Tanto quanto non vi è stato “superamento del nichilismo attraverso il nichilismo”, non vi sarà vittoria della Cina sull’Occidente per mezzo della tecnologia occidentale. Come nota così bene Yuk, la Cina stessa è sorpassata dai mezzi che ha impiegato – è stata a sua volta il giocattolo dei suoi strumenti, e di un’ontologia tanto straniera quanto ostile. I film cinesi contemporanei non cessano di testimoniare questo inebetimento, questa lacerazione esistenziale e questo sentimento d’alienazione irrimediabile. I Cinesi stessi, quali che siano le reviviscenze opportune del confucianesimo, del maoismo, del taoismo o del legismo, hanno perso il filo della loro tradizione, a forza di averla invocata. La sola cosa che caratterizza i Cinesi contemporanei tra tutti gli altri Moderni, è un ardore più innocente per la mobilitazione generale, una fame chimica di consumo meno esasperata e un orgoglio nazionale un po’ più profondamente ferito, e dunque un po’ più eccitabile, di quello dell’Americano medio. Cos’altro se non un coronavirus a diffusione mondiale poteva nascere da una conurbazione al cui ingresso troneggiano i cartelli del Partito che proclamano “Ogni giorno, una nuova Wuhan!”?
Se la corsa economica e tecnologica attuale va dritta contro un muro, allora bisogna ammettere che fare un passo indietro potrebbe significare prendere diversi colpi in più. Disertare il gioco sempre-già condannato delle potenze potrebbe inaugurare una nuova partita. Tirarsi fuori dalla lotta storica potrebbe essere il solo modo di vincere su uno scontro perdente di per sé. Lasciamo la “CinAmerica” al suo triste destino: si volterà ben presto per accorgersi che l’abbiamo sorpassata nella sola direzione praticabile, e felice. Tutto indica, del resto, che le riserve d’invenzione più considerevoli, in quasi tutti gli ambiti, non risiedono in un’abbuffata ulteriore di mezzi investiti fino all’ultimo respiro nel paradigma meccanicista della modernità, ma nella disposizione a sottrarvisi e sperimentare ipotesi cosmotecniche fin qui considerate come fandonie. È qui che la proposta di Yuk assume tutto il suo senso, e merita di essere presa molto sul serio dal lettore francese. Potrebbe essere che tocchi a noi, attardati [tard venus] su un continente sul quale il sole non cessa di tramontare, di raccogliere ciò che di più vivificante, di più spirituale, di più paradossale la tradizione taoista ha composto. Può essere che ci spetti di riconnetterci nuovamente alla terra e al cielo in maniera da coltivare una efficacia che non risieda più centralmente negli effetti esteriori, in ciò che è prodotto, ma in ciò che si produce – nella dimensione etica, dunque, e non intenzionale. Può essere che si annunci qui una forma di guarigione tanto generale quanto la nostra amputazione fu civilizzatrice. Può essere che questi giovani agronomi che recuperano fattorie in comune a filiera corta invece che diventare consulenti di tour aeroponici siano come gli uccelli la cui fuga precipitosa annuncia la tempesta, o lo tsunami. Può essere che il solo avvenire degli ingegneri risieda nello smantellamento del sistema industriale, proprio come il solo avvenire dell’industriale nucleare è il business dello smantellamento delle centrali – o della “gestione” delle Fukushima a venire. Si vi è una condizione di “resilienza” nel caos che si annuncia, è proprio il tirarsi fuori dalle grandi reti tecniche, che siano per la fornitura di elettricità, le comunicazioni o l’alimentazione – il cessare di dipenderne. Se anche un intero continente si mettesse sulla via della cosmotecnica, il livello comunale resterebbe quello privilegiato per il suo cammino. La deindustrializzazione dell’Europa non è trattenuta da una maledizione ma dal rifiuto di vedervi la sola via di un avvenire sensato. Coloro che, come Frédéric Lordon, si affrangono perché in caso di secessione generalizzata dovrebbero rinunciare non solo al loro computer prodotto a Shenzen ma anche alle loro penne di plastica venute dall’India, difettano soltanto dell’attitudine a un pensiero processuale, e non programmatico. L’unificazione tecnologica del mondo, che sot-tende l’Impero e la sua omogeneità etica, ha raggiunto il suo punto culminante: di qui la vertigine di colui che ravvisa la possibilità di un ritorno sulla terra.
Simondon notava a suo tempo che “l’uomo moderno degrada allo stesso tempo, allo stesso modo, e per la stessa ragione la tecnicità e la sacralità”: chiamava a salvare l’oggetto tecnico dal “suo statuto attuale che è miserevole e ingiusto”, a salvarlo, soprattutto, dalla sua adulterazione commerciale. Per lui, vi è una pluralità di tecnicità come vi è una pluralità di sacralità. Il suo pensiero è folle, geniale, contraddittorio, esploratore. Per la sua estrema sensibilità, il suo apprendimento relazionale, organico, dinamico dei fenomeni si sposa a quello di Yuk. Essa chiama ad uno sganciamento, a volgere lo sguardo dagli scopi agitati alla lontana verso l’immanenza di ciascuna realtà tecnica. A estirpare dalla loro invisibilità tutte quelle infrastrutture che determinano il nostro modo di vivere e che tanto amano fondersi nello sfondo. Dovunque siamo, dovunque volgiamo lo sguardo sul mondo che ci circonda, ci dobbiamo confrontare con le aberrazioni che la logica economica impone – totalizzazione, controllo, miseria, innovazione, profitto. È in fondo la stessa urgenza di tornare sulla terra e di sganciarci dal corso demente della civilizzazione che impone di meditare, nozione dopo nozione, la metafisica occidentale e di far esplodere, oggetto dopo oggetto, il continuum tecnologico. Vi è tanto da scoprire nell’archeologia del sapere, quanto nella genealogia degli oggetti tecnici che ci circondano, altrettante biforcazioni appena accennate e condannate dalla “necessità storica”. E all’opera, qui e lì, c’è in fondo la stessa passione di comprendere come ciò funzioni e a quale ribaltamento d’uso potrebbe dare luogo. La divisione tra utilità e bellezza, tra tecnica ed etica, tra “regno della necessità” e “regno della libertà”, tra cammino individuale e bisogno collettivo, perde tutto il suo senso nel momento che da qualche parte s’intraprende il processo. Ognuno sa bene che è questo che il presente reclama. Il flusso della diserzione non smette di gonfiarsi a misura del materializzarsi dell’impasse. Tutto si gioca, qui, in rapporto al tempo: “Se conserviamo al tempo il suo valore puritano, ossia un valore d’uso, bisogna allora domandarsi come il tempo è impiegato, o come è sfruttato dalle industrie dello svago. Ma se la nozione d’uso funzionale del tempo diventa meno pregnante, allora gli uomini dovranno ri-apprendere certe arti di vivere che si sono perdute con la rivoluzione industriale: come riempire le falle delle loro giornate con rapporti personali più ricchi e più distesi” (E.P. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale).