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La Spirale

Phil A. Neel

Epilogo all’edizione francese del libro Hinterland: America’s New Landscape of Class and Conflict (Londra: Reaktion/Rail Books, 2018). Originale inglese sul sito di Brooklyn Rail. Traduzione a cura di Porfido.

Sta accadendo di nuovo

Il tempo gira su se stesso come un’onda che si infrange. Siamo inevitabilmente trascinati dalla deriva del suo vortice, ancora persi negli stessi luoghi, negli stessi eventi che si ripetono intorno a noi, solo alterati da sottili oscillazioni. Il flusso e riflusso è di solito appena percettibile, e lo spazio stesso fa parte di questo grande rituale economico sul quale non abbiamo alcun controllo: il viaggio per andare al lavoro, il percorso di consegna, i tanti ricordi sfocati di luoghi poco importanti o dell’ordine delle corsie. Questa reiterazione ci ricorda che, dopo tutto, lo spazio e il tempo sono legati come la carne lo è alle ossa. Preso singolarmente, questo è il ciclo essenziale ed esistenziale dell’esperienza vissuta. Tuttavia, la vita umana è fondamentalmente collettiva, il che significa che, come molte altre cose, può essere percepita solo su scala globale – ciò che chiamiamo politica, o anche storia, ovvero il nome dato a una politica che si sviluppa nel tempo. È su questa scala che percepiamo davvero come nulla mai si ripeta veramente. Ogni onda assomiglia alla precedente, eppure si differenzia da essa. L’ampiezza è a volte maggiore, più profonda e più oscura, e la sua cresta si innalza così tanto da poter artigliare il cielo. Ci potrete perdonare se, travolti dalla sua ascesa, non riusciamo a percepirne il modello parabolico e ne anticipiamo invece un arco di tipo esponenziale, come se questa onda fosse l’ultima: l’insurrezione mozzafiato, il diluvio che travolge infine le porte del paradiso.

Con questi sentimenti mi trovavo su un particolare angolo del centro di Seattle nel 2020, in una giornata particolarmente piovosa di fine maggio. I miei vestiti erano zuppi come al solito. Gas lacrimogeni e granate urticanti donavano all’aria quell’odore speziato così familiare, portando alla memoria un centinaio di momenti simili a questo, in città come altrove. Ora a Seattle le vetrate in frantumi scricchiolavano sotto i piedi come sabbia. Lo spazio riecheggiava della musica delle auto in corsa tra la folla, con le acclamazioni e gli epiteti incitati a gran voce contro la linea di polizia a difesa di un incrocio devastato. Otto anni prima, in una giornata di sole di inizio maggio, un’altra folla mascherata aveva attraversato quello stesso incrocio dopo aver sfondato un negozio Niketown e uno di American Apparel. Questa volta la Niketown era stata risparmiata, dopo anni di rivolte del Primo Maggio in cui era stata bersagliata con tale forza da costringere l’azienda a barricare le vetrine e ingaggiare una sicurezza privata a loro tutela ad ogni accenno di protesta; quanto ad American Apparel, questa è fallita da tempo. Questa volta, invece, era toccata al negozio della North Face dall’altra parte della strada: sfondato l’ingresso, i suoi numerosi capi di abbigliamento erano passati di mano in mano fra la folla di zoomer; al posto del negozio American Apparel, l’insegna di un altro marchio di abbigliamento era stata saccheggiata a sua volta, e le sue giacche imbottite trafugate in quantità. Alcune giacevano a terra, scivolate da spalle sovraccariche, e la loro lucida maglia invernale drappeggiava sui mucchi di vetri rotti ammassati sul marciapiede come cumuli di ghiaccio.

È nei più piccoli dettagli fisici relativi a forza e quantità che possiamo cogliere la divergenza tra iterazioni dello stesso tipo. Nel 2012, era stata una folla di circa cinquecento persone, una massa compatta di colonne nere, ad invadere il centro della città. Nel 2020, a scatenarsi erano migliaia di persone disperse in gruppi di un centinaio di persone ciascuno. Il Primo Maggio granelli di vetro giacevano sparsi sui marciapiedi, aggiungendo una sorta di graniglia alla fluida circolazione di denaro e merci, senza mai minacciarne tuttavia veramente il blocco: le vetrate distrutte erano state sbarrate e i negozi avevano perso a malapena un giorno di vendite. Ma in questa nuova fine di maggio non si è vista questa pronta ripresa. I frammenti di vetro questa volta si accumulavano fino alle caviglie. I negozi erano stati saccheggiati. Anche senza la pandemia che già soffocava le catene di approvvigionamento globale, il lungo rifornimento necessario avrebbe compromesso settimane di affari. Ognuno di questi due momenti speculari risuona con un tono diverso nelle nostre viscere. Quel Primo Maggio del 2012 segnò la fine di un movimento, una delle tante sepolture pirriche che, in retrospettiva, erano forse più simili al rogo di un pino pirofita, che semina il futuro con il germe di una politica a venire. Seguirono anni bui, pieni di repressione, emigrazione e un generale ritorno all’amministrazione atonale e depoliticizzata di un mondo in lenta agonia. L’onda si rialzò di nuovo nel 2014-2015 a Ferguson, Baltimora e Baton Rouge, ma fu soppressa con rapida risolutezza, lì come altrove, lasciando dietro di sè forse un weekend di chiusure di autostrade e un centinaio di nuovi imprenditori di ONG a banchettare sui resti. La prima volta in quelle strade del centro, la sensazione condivisa aveva poco a che fare con l’anticipazione, piuttosto con l’adrenalina del precipizio. Trascinando le nostre centinaia di bandiere rosse e nere, ci immergevamo insieme nell’oscurità attraverso la quale, alla fine, le bandiere nere erano affondate mentre quelle rosse svanite come braci immerse in acqua fredda.

Nel 2020 nessuno portava più bandiere. La gente brandiva invece le braccia rotte dei manichini, i loro corpi di colore neutro trascinati dalle vetrine dei negozi e ammucchiati sull’asfalto tra molti altri oggetti sparsi e fusi casualmente insieme in barricate fai da te. L’intera città aveva ricevuto da ore un sms del sindaco che dichiarava il coprifuoco alle 17.00 (annunciato appena 10 minuti prima), chiunque fosse stato trovato fuori in violazione della legge sarebbe stato soggetto ad arresto immediato. Eppure eravamo migliaia, e nei nostri stomaci non c’era quella sensazione di imminente repressione, ma invece l’ascesa estatica – una leggerezza che ti riempie lo stomaco da qualche parte appena sotto il cuore, facendo apparire questo mondo greve improvvisamente senza peso. Non ero l’unico a percepire questa sensazione. Gli occhi eccitati e sconcertati che sbirciavano dai volti mascherati sembravano tutti porre la stessa domanda: fin dove può arrivare? La risposta arrivò sotto forma di lontane esplosioni che rimbombavano sull’acciaio e sul vetro, mentre i serbatoi di gas delle auto di pattuglia in fiamme prendevano fuoco. Colonne di fumo nero si alzavano come segnali in lontananza, attirando nuove folle che vagavano attraverso il labirinto di grattacieli. Alla fine, la polizia non fu più in grado di mettere in sicurezza nulla, se non una manciata di incroci chiave. Ogni massa dispersa si trasformava in una miriade di bande, indipendenti l’una dalle altre, che mescolavano la rivolta alla festa. I poliziotti non potevano far altro che sfrecciare a tutta velocità per le strade affollate. Le sirene risuonavano e le luci si confondevano al calare della notte, costringendo tutti ad abbandonare le strade.

Più che la fine, questo fu solo l’inizio. Nei giorni successivi, le ribellioni locali proliferarono in tal numero e varietà che divenne impossibile seguire gli eventi nella loro interezza. La vicina Bellevue fu immediatamente saccheggiata, nonostante questa versione più ricca di Seattle (una città tecnologica piena di condomini fantasma) non fosse mai stata prima teatro di grandi proteste. In seguito fu la volta di altri centri commerciali della zona, mentre saccheggi tardivi scoppiarono in ogni angolo del paese. Questi fatti furono ignorati o selvaggiamente distorti dai principali media, raramente trasmessi in diretta dagli attivisti, ma comunque resi visibili attraverso una splendida ed effimera Snapchat Map, dove ho potuto vedere un adolescente uscire di corsa dal Target [catena di negozi con articoli per la casa, abiti, elettronica n.d.T] di South Center stringendo in mano un aspirapolvere, in quella che potrebbe essere descritta come la riproduzione sociale dell’atto. Nel frattempo, in altre grandi città americane, squadre di piccoli gruppi saccheggiavano i ricchi centri commerciali in posti come Santa Monica e Beverly Hills, o assalivano i treni merci in lento movimento nelle vaste terre desolate dei terminal ferroviari appena oltre Chicago, lanciando televisori a schermo piatto giù dai container precedentemente forzati.1 Fu a questo punto che la già citata sensazione di leggerezza divenne quasi inquietante. Era forse la prima volta nella vita di un giovane che il corpo ibernato dell’insurrezione cominciava a dimenarsi. Questo sensazione di galleggiamento, alimentata dal fuoco divampato dalle stazioni di polizia e dalle auto incendiate, si era trasformata in vertigine: la stessa vertigine che ci attanaglia quando ci troviamo in bilico sul bordo di un precipizio, proprio quando ci rendiamo conto che stiamo per cadere.

La repressione fu sistematica e totalizzante. Più tardi in quella stessa settimana, gli stessi parcheggi del centro commerciale erano ora pieni di membri della guardia nazionale in formazione anti-sommossa. Nel frattempo, la polizia aveva dato carta bianca alle bande razziste di destra in diverse città americane, riprese dalle telecamere in posti come Fishtown a Filadelfia ad aggredire anche il più mite dei sostenitori del movimento. A New York, i poliziotti avevano semplicemente continuato a farsi strada a pugni tra la folla. Queste forme di repressione eccessiva, tuttavia, non corrispondono realmente al modo in cui vengono schiacciate le rivolte negli Stati Uniti. Queste forze, anche se pericolose e violente, sono per la maggior parte impiegate solo in situazioni particolari, per sfoltire le frange più militanti del movimento, per raccogliere informazioni per un successivo processo, e per mantenere una pressione costante volta a demoralizzare coloro che resistono in strada. Diversamente, funzionano quasi esclusivamente come rinforzi, in attesa dietro le quinte nel caso fallisca la repressione abituale e la rivolta si riveli più difficile da contenere. Qui troviamo un’altra delle inevitabili ripetizioni.

Iterazioni

Ho scritto Hinterland durante un altro periodo di declino e repressione, quando il primo ciclo di quello che sarebbe diventato il movimento Black Lives Matter cominciava a emergere dai fuochi di Ferguson prima di svanire nei libri di qualche ente di beneficenza. Il grosso di quanto scritto è avvenuto nel 2015-2016, quando l’energia della rivolta iniziale era stata ormai sostituita da appelli senza senso alle “body cam” per la polizia e altre riforme minori promosse dai leader “ufficiali” del movimento, ormai ben posizionati nel collo di bottiglia del branding online della rivolta. Tutto questo accadeva mentre un certo numero di persone coinvolte nel movimento fin dall’inizio morivano in circostanze “strane”: due uccisi a colpi di pistola, corpi bruciati, diversi sospetti suicidi e un “annegamento accidentale”.2 La rivolta iniziale si era diffusa in altre città, nello stesso ciclo di ripetizione senza fine, portando a proteste a livello nazionale, blocchi stradali e almeno altri due grandi epicentri di nuove rivolte, a Baltimora nel 2015 e Baton Rouge nel 2016. Queste esplosioni ebbero però vita breve, falcidiate dalle recriminazioni all’interno del movimento successive a due attacchi di lupi solitari contro la polizia, nonché dalla repressione esterna. Alla fine dell’anno, l’attenzione era quasi interamente concentrata sulle conseguenze delle elezioni del 2016, che se da un lato avevano confermato la natura profondamente razzista dello stato americano, dall’altro oscuravano il vero terreno di lotta. I liberali appena risvegliatisi hanno sviluppato da allora un’ossessione infantile per il personaggio di Trump stesso, apparentemente ciechi al fatto che, fino a maggio 2020, la più grande rivolta di giovani neri in decenni abbia avuto luogo non solo sotto un’amministrazione democratica, ma anche durante il mandato del primo presidente nero nella storia del paese.

Quell’elezione portò ad una strana accoglienza del libro. Per coincidenza, Hinterland era stato pubblicato contemporaneamente a centinaia di altri testi che tentavano di spiegare, in modo errato, il presunto risultato inaspettato delle elezioni come il prodotto dell”ansia economica” tra i bianchi poveri delle aree rurali. C’era quindi un comprensibile desiderio di collocare il libro all’interno di questo sottogenere, nonostante le sue conclusioni andassero chiaramente in direzione opposta: i primi due capitoli mettevano in evidenza la realtà dell’astensione all’interno delle aree rurali povere, veniva decostruita l’illusione di una “classe operaia bianca”, e l’effettivo carattere di classe e la dipendenza urbana delle periferie pseudo-rurali relativamente ricche veniva illustrato nel dettaglio. La dipendenza urbana delle grandi periferie pseudo-rurali e relativamente ricche è illustrata in dettaglio. Tuttavia, molti lettori sembravano enfatizzare eccessivamente il mio resoconto sulle campagne e la rust belt del lontano entroterra, poiché queste erano le parti che, se male interpretate, erano abbastanza facili da inserire nella narrativa pre-esistente sul declino americano, fatta di ritratti esotici sulla decadenza rugginosa dell’entroterra . Da questa prospettiva, l’ascesa del movimento delle milizie descritto nel libro è stato interpretata come un segno di un’operazione di successo della crescente estrema destra, culminata nell’elezione di Trump. Piuttosto, come ho dimostrato, questo si è rivelato un fallimento brutale quanto rivelatore, nondimeno importante nella misura in cui ha suggerito come un movimento di massa di estrema destra potrebbe potenzialmente formarsi in futuro, supponendo che si apra maggiormente a un’adesione multirazziale e che metta radici nel punto veramente strategico del conflitto di classe negli Stati Uniti di oggi: la periferia.

Nel complesso, questa lettura errata così alla moda enfatizzava il lontano hinterland a spese del vicino hinterland. L’estremo hinterland degli Stati Uniti è certamente a suo modo importante, e presenta numerose lotte in corso di carattere decisamente più interessante rispetto al movimento delle milizie – che vedono coinvolti principalmente movimenti indigeni e lavoratori impiegati in lungo e in largo nella catena di approvvigionamento alimentare. Ma è nel vicino hinterland (le frange urbane e i sobborghi interni che circondano ogni città americana) che si trova il nucleo concettuale del libro. L’hinterland è, complessivamente, una zona di esclusione dal nucleo di accumulazione e consumo. Se questo nucleo è simbolicamente incarnato dalla vuota e sontuosa zona centrale che si immagina essere la dimora postindustriale di “creativi” e amministratori, allora l’hinterland è semplicemente tutto ciò che non rientra in questa illusione. Sono tutte quelle persone al di là del muro della città centrale, così come tutti coloro che accorrono dalle nuove periferie povere per operare al suo (nascosto) funzionamento interno.

Nell’hinterland profondo, questa esclusione raggiunge certamente proporzioni estreme. L’espulsione generale della popolazione e dell’industria significa che anche le mobilitazioni politiche di maggior successo non solo sono complicate, ma hanno anche poco peso e rappresentano solo una minaccia minore per chi è al potere. Nel vicino hinterland, questa esclusione è più immanente al sistema, e quindi molto più minacciosa. Questi sono i quartieri dove vivono i lavoratori dei servizi a bassa qualifica, dove la povertà cresce più velocemente, dove i nuovi immigrati si stabiliscono per la prima volta, e dove approdano le persone espulse dai centri cittadini a causa dei processi di gentrificazione. Ancora più significativo, questi quartieri operano come i nuclei economici ripudiati delle grandi aree metropolitane statunitensi, non solo in termini di forza lavoro ma anche di produzione. Sono i centri chiave dell’infrastruttura industriale mondiale, costruiti frettolosamente per attirare le riserve di manodopera a basso costo che esistono appena al di là della vista del liberale medio urbanizzato. È in queste periferie invisibili, aree escluse, colonie di confine e nuovi ghetti segregati ai margini della città che troviamo il luogo del conflitto di classe negli Stati Uniti di oggi.

Resta il fatto che la prima grande rivolta negli Stati Uniti del XXI secolo sia iniziata in un sobborgo del Missouri. Ma il fenomeno non è affatto limitato al paese. In effetti, il cambiamento della geografia della produzione americana è meglio compreso come un ritorno alla norma globale dell’urbanizzazione capitalista, dove gli insediamenti della classe operaia adiacenti all’industria (siano essi edilizia popolare o baraccopoli informali) formano un’aura attorno ai centri urbani, cuore della cultura e del consumo. Ciò significa che anche questo paesaggio del conflitto di classe si sta riproponendo come una sorta di norma globale. La rivolta di Ferguson può essere vista come la versione locale di una rinascita globale della lotta, che in molti luoghi ha preso la forma di minaccia insurrezionale nel senso letterale della parola – un momento che Alain Badiou vede giustamente come il “risveglio della storia”. Tuttavia, queste lotte sono quasi universalmente definite da una contraddizione inconciliabile in termini di geografia globale. Anche quando coinvolgono persone provenienti da aree proletarie periurbane con una sostanziale infrastruttura industriale, tali eventi non solo tendono a ignorare la sfera della produzione in quanto tale, ma tendono anche a essere attirati al centro della città iper-sorvegliato. In questi centri urbani, le rivolte sfumano in proteste, e anche quelle più riuscite (per esempio in Egitto) riescono ad ottenere solo false vittorie poiché si oppongono ad un miraggio del potere – che sia un partito, il parlamento o il sontuoso distretto finanziario e commerciale – mentre quasi letteralmente passano sopra il vero centro del potere, incarnato nei molti nodi e corridoi dell’infrastruttura produttiva globale situati nelle periferie.

Ferguson non è stato solo preceduta da rivolte suburbane molto simili in tutta la Francia nel 2005, nel Delta del Fiume delle Perle tra il 2008 e il 2014,3 e in tutta l’Inghilterra nel 2011, ma anche dai movimenti globali delle piazze, innescati non nel mondo arabo, come vuole la narrazione popolare, ma in Thailandia nel 2010, quando le Camicie Rosse occuparono il quartiere commerciale di Ratchaprasong nel centro di Bangkok. Il caso thailandese è un esempio particolarmente eloquente dell’enigma geografico di cui sopra, poiché ha riguardato letteralmente il trasporto via bus di molti residenti del lontano entroterra agricolo del paese (in particolare dalla povera regione nord-orientale di Isan) e la partecipazione di massa dei lavoratori migranti più poveri che vivono nella periferia industriale della città. L’afflusso di massa di persone dall’entroterra al centro urbano paralizzò allora la città, sollevò lo spettro incombente dell’insurrezione popolare e sconvolse il flusso regolare dell’amministrazione politica. Ma l’intero processo registrò pochissimi scioperi o altri tipi di azioni sul posto di lavoro, ed essenzialmente nessuna minaccia di espropriazioni di massa dei terreni. E’ questo un perfetto esempio di una lotta in cui le rimostranze di base delle persone coinvolte (spesso direttamente economiche) vengono reindirizzate in richieste di cambiamento politico: il movimento stesso si era sviluppato intorno alla difesa di un partito di opposizione populista messo al bando, guidato dal miliardario delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra (e, più tardi, da sua sorella Yingluck).4 Nel frattempo, nonostante i partecipanti provenissero proprio dai distretti agricoli ed industriali che costituivano la spina dorsale dell’economia thailandese, la loro ribellione fu attirata fuori da queste grandi arterie economiche fin dentro l’arena non essenziale ma ipervisibile del consumo, dove divenne meno minacciosa ma più spettacolare. Questo prefigurava un modello che si sarebbe ripetuto ancora e ancora in tutto il mondo negli anni a venire.

Sfumature di giallo

Ogni iterazione, tuttavia, tende a portare con sé qualche ricordo dei fallimenti passati. La spirale della lotta si allarga man mano che sempre più persone vi sono coinvolte. Oggi, indipendentemente dal paese o dal conflitto, gli eventi cominciano a riversarsi oltre i loro vecchi confini. Mentre si continuano a ripercorrere le solite strade battute, sempre più giovani scoprono, non senza una frustrazione inquieta, che i modelli stabiliti da coloro che li hanno preceduti sono tutti limitati a un circolo nevrotico di pura indignazione pacifica e impotente che deve essere violentemente distrutto se si vuole far emergere una vera ribellione. Il cambiamento di tattica può essere abbastanza rapido, e coglie quasi sempre gli attivisti di sorpresa. Ricordo di aver tenuto una manciata di conferenze in alcuni piccoli spazi artistici e librerie di sinistra a Hong Kong nelle estati del 2014 e 2015, poco prima e poco dopo lo scoppio dell’Umbrella Movement – e mi è capitato di assistere anche ad alcune delle proteste di giugno-luglio che avvengono regolarmente in città. All’epoca, queste erano le dimostrazioni più pietose e noiose che avessi mai visto, nonostante le loro grandi dimensioni. Migliaia di persone ricoprivano i marciapiedi del quartiere Admiral nelle calde e umide notti d’estate, e la folla si riuniva intorno a grandi piattaforme di discussione dominate dal linguaggio della non violenza e dai consigli dei conservatori pan-democratici accompagnati da gruppi di studenti e membri di ONG. Era in tutti i sensi esattamente il tipo di “movimento sociale” che gli attivisti di professione negli Stati Uniti sognano da tempo, con ciascun gruppo di interesse impegnato a portare la propria “lotta” al tavolo e a negoziare – in lunghi e prolungati incontri e momenti di formazione tenute dai liberali – una convergenza di tutte queste lotte in un unica coalizione.5

I discorsi che tenni in questo contesto, tuttavia, erano una prefigurazione di alcuni dei temi principali di Hinterland, con un’enfasi sulle rivolte e la feroce condanna dei movimenti sociali, fino alla loro logica essenziale. Ponevo la semplice e concreta questione del potere in opposizione al discorso, alla consapevolezza e alla convergenza delle diverse identità e delle loro distinte lotte. In una conferenza del 2014, quando affrontai il tema della rivolta e dell’insurrezione e suggerii che tali rivolte sarebbero potute scoppiare a Hong Kong, le mie parole furono accolte con cortese incredulità, con gli attivisti locali a spiegarmi come “la gente di Hong Kong è semplicemente troppo civile per fare qualcosa del genere”. Ma nel 2015, dopo il fallimento del Movimento (non-violento) degli Ombrelli, una nuova forma di politica aveva già iniziato a farsi largo, anche se inconsciamente. In quegli ultimi dibattiti il pubblico almeno iniziava a riconoscere che una divisione tattica avesse comunque cominciato ad emergere all’interno del movimento poco prima del suo esaurirsi, tra coloro che sostenevano il “grande palcoscenico” (大台) allestito dai gruppi studenteschi e pandemocratici da una parte, e coloro che chiedevano di “abbattere quel grande palcoscenico” (拆大台). La maggior parte dei membri della sinistra locale, tuttavia, considerava le azioni più aggressive emerse alla fine del movimento solo come azioni isolate e impopolari perpetrate da una manciata di giovani duri incoraggiati dai localisti di estrema destra della città, che all’epoca costituivano uno degli unici appoggi pubblici per coloro che avevano tentato di rompere le finestre del parlamento.6 Questo elemento, più di ogni altra cosa, offuscò la visione del movimento sociale su ciò che sarebbe arrivato.

Quattro anni dopo, mi ritrovai in quelle stesse strade con lo stesso caldo umido. Ma questa volta non c’erano piattaforme di discussione. La vasta folla si ergeva in piedi e il suo principio di base ripetuto in inglese come “decentralization”, suonava letteralmente come “senza un grande palco” (无大台) – uno slogan in aperta condanna dell’unità fondamentale del “movimento sociale”7. Al posto dei diversi gruppi identitari intenti a cercare di colmare la separazione fra le proprie lotte, si stagliava ora un’unica onda nera armata di laser, martelli e sormontata da caschi gialli. Nathan Road era disseminata di mattoni divelti e cartelli stradali abbattuti, il tutto racchiuso da una pallida coltre di graffiti colmi di insulti contro la polizia e contro il declino della città. Giovani si ergevano in piedi su un cavalcavia pedonale, lanciando insulti in cantonese a una lontana linea di polizia antisommossa, che rispondeva a sua volta con i propri sproloqui. La polizia, a quel punto, aveva perso qualunque illusione di ordine, correva nel panico da un incrocio all’altro per formare linee improvvisate e mantenere disordinatamente lo scorrimento del traffico, solo per abbandonar la posizione pochi istanti dopo sotto la pressione della folla. Le rivolte non solo erano tornate a Hong Kong, ma erano diventate una parte integrante della città. Il malcontento generale era così diffuso tra la popolazione che i manifestanti potevano facilmente mimetizzarsi nel tessuto urbano. Ancora più importante, ogni fase dell’escalation della rivolta era stata guidata da giovani con scarso coinvolgimento politico precedente. Molti di loro provenivano dalla periferia della “New Town” nel vicino hinterland, erano tutti figli del fallimento dei movimenti passati. Esclusi dal nucleo urbano per i costi esorbitanti, erano consapevoli che avrebbero dovuto affrontare una vita all’insegna della stagnazione economica generale. Si sono politicizzati rapidamente, non per consapevolezza militante, piuttosto per assenza di speranza nel futuro.

Il risultato è stato uno dei conflitti politici urbani più organizzati, competenti e geograficamente estesi della nostra generazione, nonostante la limitata consapevolezza politica – simboleggiata dalla presenza di bandiere americane e dagli ingenui appelli agli Stati Uniti (che, per inciso, hanno addestrato la polizia di Hong Kong per anni) a intervenire in nome della “libertà e della democrazia”. Ma questa mancanza di consapevolezza politica non era casuale. Infatti, è stato solo grazie ad una tale rigorosa depoliticizzazione che le azioni radicali avevano potuto sostituire le infinite discussioni e performance degli attivisti radicali. In ogni aspetto, il linguaggio liberale della libertà e della democrazia era stato superato dal movimento reale sottostante – che in un frangente simile non poteva che manifestarsi senza parole, rifiutando ogni discorso. È giusto, quindi, che una città a lungo riconosciuta come la capitale globale della società civile e dell’organizzazione dei movimenti sociali sia tra le prime a vedere il movimento sociale estinguersi, sostituito dal conflitto aperto. Ma la sequenza di Hong Kong non è stata davvero la prima del suo genere. I caschi gialli erano invece più o meno dello stesso giallo dei gilet che avevano popolato la Francia un anno prima, solo di una tonalità diversa, e l’incendio di Hong Kong era una rievocazione di una Parigi battezzata ancora una volta nelle fiamme.

Se prendessimo la logica generale esposta in Hinterland e, attraverso qualche sorta di magia nera, la incarnassimo in un vero movimento politico di massa, ho il sospetto che un tale golem indosserebbe un gilet giallo. Mentre assistevo da lontano allo svolgimento degli eventi nel 2018, fui colpito da uno stridente e speranzoso déjà vu: la scintilla immediata per il movimento in Francia era stata precisamente quel tipo di conflitto sulle rendite estrattive che incarna gran parte dell’esperienza di classe dell’hinterland. Questa è la situazione dell’entroterra remoto degli Stati Uniti, dove, sostengo, le lotte si cristallizzino intorno alla questione delle tasse e delle imposte proprio perché la gente vive lo sfruttamento essenzialmente come una questione di rendite piuttosto che di salari. Queste sono anche aree molto estese e lontane dalle infrastrutture pubbliche, il che significa che i residenti sono prevalentemente dipendenti dal trasporto automobilistico e la vita è definita dai lunghi spostamenti. In questo contesto, una tassa sul carburante è doppiamente dannosa. La geografia iniziale della ribellione non deve quindi sorprenderci:

[…] Il movimento si è diffuso in tutta la Francia con l’eccezione, inizialmente, delle megalopoli ricche e delle loro periferie. Era particolarmente importante nella cosiddetta “Diagonale du Vide”, un territorio che si estende in Francia da nord-est a sud-ovest, ma anche in generale nelle lontane periferie e nelle zone rurali dove l’auto è diventata una necessità vitale nel corso degli anni8.

Ma il conflitto non è rimasto confinato al lontano entroterra. Al contrario, si è presto riversato nel complesso urbano stesso, generando una costellazione di nuovi territori ribelli, disseminati dai centri eleganti delle città fino alle periferie proletarie. Questo non solo ha generato una rottura con la geografia consolidata della protesta, ma ha stravolto completamente le coordinate politiche preesistenti nel paese.

In un contesto pressochè identico a quello di Hong Kong l’anno successivo, i gruppi di sinistra hanno inizialmente preso le distanze dal movimento, poiché la sua composizione sociale era considerata “problematica” e non rifletteva i modelli presistenti:

Proprio perché i Gilet Gialli sono venuti fuori dal nulla, o da luoghi dove gli slogan e le altre bigotterie della sinistra erano inesistenti, alcuni radicali sono rimasti sospettosi o addirittura ostili alla piega che hanno preso gli eventi. L’opposizione alle tasse difficilmente rientra nella grammatica delle rivendicazioni della sinistra radicale. Se non si adatta ai suoi modelli, allora bisogna applicarle un’altra etichetta politica: populista, di destra, fascista, ecc9.

Il risultato è che questi veterani dei movimenti sociali condannarono inizialmente le mobilitazioni, fino ad immaginare fossero controllate, in modo quasi cospiratorio, dall’estrema destra. Paradossalmente, queste critiche di estrema sinistra, basate sulla nozione di identità, furono rapidamente riprese dallo Stato stesso per giustificare la repressione del movimento man mano che questo prendeva piede nel paese. Tuttavia, questo precoce rifiuto da parte degli attivisti – molti dei quali si professavano anarchici e comunisti – non fu sufficiente a fermare il movimento o a spostarlo a destra. Al contrario, questo fu spinto in avanti dalla massiccia partecipazione di proletari relativamente depoliticizzati, il cui approccio elementare e pragmatico alla questione del potere, senza discussioni su questioni di etica politica, permise una rapida espansione delle tattiche.

Oltre all’occupazione delle rotonde e alle mobilitazioni nelle città del lontano entroterra, che hanno letteralmente portato il movimento all’uscio del proletariato francese, gli attacchi dei manifestanti sono penetrati fin dentro il cuore della città:

Hanno preso d’assalto l’Arco di Trionfo e i viali circostanti, poi hanno costretto la polizia antisommossa a ritirarsi, facendo sembrare a confronto le azioni del black block francese una tranquilla partita a scacchi. I Gilets gialli hanno saccheggiato i quartieri commerciali degli eleganti 8° e 9° arrondissement di Parigi, stappando champagne davanti alle facciate devastate delle banche10.

Questi attacchi alla proprietà hanno impedito all’estrema destra di monopolizzare il movimento e al centro-sinistra di recuperarlo, essendo entrambi votati, a conti fatti, alla conservazione del mercato e alla protezione della proprietà privata. Astuzia politica assente a Hong Kong e soppressa dalle forze politiche negli Stati Uniti, il concetto di “saccheggio come pratica antifascista” ha preso piede qui11. È questa fedeltà all’azione radicale (l’impegno) e non ai cosiddetti attori radicali, o agli elementi del linguaggio o al simbolismo (il programma) che garantisce la traiettoria politica di queste lotte. All’alba di questo secolo, che prefigura un terrificante conflitto di classe, sembra che il rosso del comunismo brilli solo debolmente all’orizzonte, e che i primi bagliori sorgano nelle tonalità di giallo.

La morte di tutto

Mi piace credere che sotto le onde che si infrangono ci sia una sorta di marea crescente, qualcosa come un graduale aumento del livello del mare, forse un po’ come il diluvio che lentamente minaccia di annegare metà della terra e coprire il resto sotto un deserto che avanza inesorabile. Ma se quel diluvio è la vera apocalisse – il nostro mondo infernale che finalmente assicura la fine di tutti nello spettacolare suicidio del capitalismo – il diluvio che auspico nel finale di Hinterland è un torrente più estatico. È il riconoscimento che se il tempo è un’onda che si infrange, è comunque un’onda che potrebbe sorreggere l’ascesa di una storia rinata, destinata a sommergere questo inferno fumante, ad affogare i suoi miliardari e a far da salvagente per miliardi di persone, verso qualcosa che potrebbe assomigliare almeno un po’ al comunismo. Ma la storia, naturalmente, è fondamentalmente imprevedibile. È qualcosa di costruito dalle persone, non un destino stabilito per loro a tappe. Quindi forse la speranza qui non coglie del tutto l’effetto, perché quello che sostengo, dopo tutto, è un giuramento. Ci vorranno persone impegnate a sviluppare ulteriormente le possibilità di crescita del conflitto di classe in generale e a costruire il comunismo, perché una società comunista non sarà mai il semplice prodotto automatico delle agitazioni più avanzate del “movimento reale”, quello che chiamo partito storico.

L’onda è sempre lì, non importa cosa ci sia sopra. Anche quando si infrange, vediamo prender forma le stesse figure e siamo testimoni, forse, di riflessi sparsi di onde simili che si infrangono altrove nella vasta distesa d’acqua. Un giorno, mentre con un amico stavo lasciando questo strano e breve tentativo di “zona autonoma” nel cuore di Seattle, ci imbattemmo in un furgone che esponeva bandiere francesi e gilet gialli, parcheggiato vicino alle barricate. Ci guardammo intorno alla ricerca dell’autista, ma senza fortuna. I gilet fluttuavano liberamente, come un meme di internet che gira per il mondo, come brace alla deriva. A quel punto, il movimento sembrava prossimo alla fine, e la sconfitta del suo primo atto si era dimostrata molto più rapida e decisiva che in Francia. Nonostante sembrasse annunciarne il contrario, la nascita della zona autonoma era essa stessa un sintomo dell’asfissia iniziale del movimento. Seppur abbia fornito un qualche slancio spettacolare allo sviluppo di eventi simili altrove e abbia offerto una breve esperienza trasformativa per una manciata di persone, essa ha anche suggellato tutte le regressioni tattiche che già avevano preso forma quando il movimento sociale si era mosso per strangolare il movimento reale soggiacente. In effetti, questa rivolta nazionale innescata dall’incendio di una stazione di polizia ha concluso simmetricamente il suo primo atto con il rifiuto da parte dei manifestanti di bruciare un altro distretto, ceduto loro dopo una simile ritirata.

Non c’è bisogno di entrare nei dettagli, poiché sono eventi in corso che potrebbero ancora cambiare, e siamo comunque di fronte ad una ripetizione di tragedie simili descritte in Hinterland, gestita dalle stesse figure nel decennio passato12. L’onda, ovviamente, si sta infrangendo. Tuttavia, c’è almeno la sensazione che potrebbe trattarsi semplicemente di un vortice piuttosto che di una fine definitiva. Potremmo trovarci invece di fronte all’inizio di un secondo atto, innescato dalla decisione di schierare forze di polizia federale in diverse grandi città degli Stati Uniti, attivando una rapida crescita della militanza in luoghi come Portland e Seattle. È in queste due città, insieme ad Atlanta, che stiamo assistendo alla graduale comparsa di qualcosa che potrebbe assomigliare ai “frontliners” di Hong Kong o al cortège de tête francese, dove anche i membri più pacifisti delle grandi proteste comprendono la centralità di coloro che si impegnano in azioni militanti e rifiutano, come minimo, di condannare tali attività. Spesso vanno oltre e si impegnano in un vero lavoro di sostegno. Questo sarebbe particolarmente importante nel contesto statunitense, poiché il movimento sociale e i suoi aderenti sono stati in ogni città parte integrante del ciclo repressivo. A Seattle, per esempio, questo è apparso molto chiaro.

In quel primo fine settimana alla fine maggio, l’unica forza repressiva presente era la polizia. Il raduno non era stato convocato da nessun attivista di professione, e quindi non era in alcun modo pilotato, né diretto verso particolari simboli del potere. L’energia non fu smorzata da lunghi discorsi e tediose discussioni dal palco. Grazie a questo, potè concentrarsi in una rabbia pura e ardente contro la polizia e tutta l’impalcatura di questo mondo infernale che essa rappresenta. Rapidamente sopraffatti nei primi giorni, i poliziotti ripresero rapidamente le tattiche di sempre: attaccare a raffica, cedere il terreno, sparare gas lacrimogeni a distanza e sperare che le proteste si plachino. Nel frattempo, tutte le tecniche di repressione più morbide furono messe in moto, mentre un esercito di attivisti e progressisti iniziava a mobilitarsi per la settimana successiva. È importante sottolineare come non ci sia qui nessuna cospirazione ad operare dietro le quinte. Mentre gli informatori e gli infiltrati sono ovviamente messi in campo in un secondo momento, raramente sono coinvolti fin dall’inizio13. Invece, la repressione morbida integra spesso, con la propria attività autonoma, la repressione classica, soprattutto nelle fasi iniziali. In una fase successiva, le due si riconciliano sotto forma di concessioni e riforme fatte dai governatori delle città, ma spacciate come “vittorie” sulla polizia e le autorità proprio da quel movimento sociale responsabile della repressione “morbida” del movimento reale. La cosa importante da notare è che, la maggior parte delle volte, la polizia non lavora direttamente con gli attivisti cittadini, semplicemente perché non ne ha bisogno. Gli attivisti si sentono seriamente come i “proprietari” del movimento, perché contribuiscono diligentemente ad esso con la propria esperienza, con il proprio bagaglio di competenze ed “analisi”. Allo stesso tempo, rinnegheranno costantemente questa proprietà, enfatizzando la “assenza di leader” del movimento, proprio quando la loro leadership è più evidente. Non importa quanta ginnastica mentale facciano, essi si considerano seriamente utili al movimento, nonostante contribuiscano al suo soffocamento.

Questo è esattamente ciò che si è iniziato vedere alla fine di quella prima settimana di proteste, quando diverse grandi manifestazioni sono state convocate dalle organizzazioni di attivisti più rispettate della città. La maggior parte di questi aveva mantenuto una propria credibilità radicale durante l’ultima tornata di proteste del Black Lives Matter e continuava a riempirsi la bocca con la minaccia del “complesso industriale del non profit”. Ma gli attori politici e le loro pose non contano. Solo le azioni hanno una forza, ed è nell’azione che si manifestano le posizioni politiche reali e materiali delle persone. Chi si dimostra codardo in strada non potrà mai essere comunista. Quali erano dunque le azioni mirate di questi gruppi di militanti, che in quel momento godevano del seguito di migliaia di persone nonostante fingessero di non esercitare alcuna influenza? Non si trattava d’altro che di una mera serie di marce verso destinazioni vuote e simboliche come il municipio (o semplicemente dei giri accaldati attraverso i quartieri ricchi, tutti già adornati con cartelli “Black Lives Matter”, naturalmente), dove sarebbe stato poi allestito il grande palco dopo un confronto performativo con il miraggio di potere scelto per l’occasione, e poi il solito pedante “speak-out” o “teach-in”. Nelle settimane seguenti, i ranghi si erano ridotti e la frequenza delle azioni diminuita. La creazione della zona autonoma sembrò per un attimo dare una spinta al movimento, poiché la gente accorreva alla sua atmosfera carnevalesca, ma il progetto degenerò in un’altra ripetizione del passato, sebbene questa volta molto più pesantemente armata. La polizia isolò l’occupazione, inviò informatori e iniziò a lavorare con alcuni dei ‘leader’ del movimento per assicurarsi che continuassero ad opporsi alla distruzione della stazione di polizia intorno alla quale erano accampati. Nel frattempo, la città riguadagnò terreno, rimuovendo le barricate (in tal modo portando ad una serie di sparatorie), tenendo riunioni con questi stessi autoproclamati ‘leader’ e diffondendo notizie false. Questa non era altro che la ripetizione dei vecchi modelli di anni prima. Tutto si ripete.

Ogni iterazione, tuttavia, cambia. Mentre la particolarità della politica razziale americana ha sempre garantito una facile porta d’ingresso per il movimento sociale repressivo, le fondamenta di questo processo cominciano ad essere erose dalla portata crescente delle agitazioni e dalla crescente crisi del processo di razzializzazione stesso. Le divisioni di classe all’interno delle varie “comunità” razziali stanno a loro volta diventando più pronunciate sul terreno, mentre gli aspetti più schiaccianti dell’esperienza razziale si induriscono per le classi inferiori di queste stesse “comunità”, che vengono sempre più gettate in nuovi ghetti iper-variegati, lontani dal centro urbano14. Oggi, coloro che chiedono il rispetto della “leadership nera” si trovano di fronte ad una realtà fatta di rivolte estremamente multietniche, che non pretendono affatto di rappresentare “la comunità nera”. Nel frattempo, queste rivolte non solo si oppongono al continuo assassinio di neri per mano della polizia, ma vanno anche oltre, opponendosi chiaramente ed esplicitamente alla polizia in generale, e avanzando richieste sociali ed economiche ancora più ampie15. Anche in America, allora, terra natia della vecchia logica della convergenza delle lotte tanto cara alla Nuova Sinistra, il partito storico formato dal contorcersi del movimento reale delle rivolte incendiarie potrebbe iniziare a scrollarsi di dosso quel movimento sociale che ha a lungo agito come suo parassita necròtrofo.

L’emergere di un’etica “frontliner” sarà assolutamente essenziale per questo processo. Essa fornisce agli attivisti “radicali” del movimento sociale una via d’uscita, permettendo loro di sostenere l’azione militante a parole e a distanza, stando nelle retrovie. Fornisce anche un baluardo contro i progressisti e i liberali, che cercano attivamente di recuperare il movimento all’interno dell’amministrazione comunale. Nelle prime fasi di questo secondo atto, queste persone hanno almeno avuto la decenza di tacere mentre si svolgevano azioni militanti, quando la folla intorno a loro intonava: “Non vedo niente! Non dico niente”. Questa è una notevole difesa contro la repressione. Poi, con il passare del tempo, anche i partecipanti più conservatori si rendono conto del valore di questa etica, giacché riforme prima impensabili vengono rapidamente spinte in camera di consiglio – ma solo dopo che i fuochi sono stati accesi. In tutto questo processo, una prima linea di giovani appena radicalizzati cresce rapidamente, spingendo letteralmente e figurativamente gli eventi in avanti. Nel libro Hinterland, ho definito questi soggetti come ultras (dagli ‘ultras’ tifosi di calcio presenti durante la primavera araba) e cerco di evidenziare il loro interesse relativamente depoliticizzato e pragmatico per le questioni di potere di strada, che solo successivamente assumono un particolare carattere politico. Oggi, la dinamica è molto simile. In superficie, molte dei leader de facto del movimento – che sono tutti “frontliner” e nessuno un attivista riconosciuto – dimostrano posizioni politiche estremamente informi e in continuo cambiamento. Non hanno un’agenda comune, ma sono uniti, invece, a livello tattico. Sono legati dal giuramento di intraprendere qualsiasi azione che possa promuovere disordini, aprire la frattura nella società e seminare il potenziale politico.

In ultima istanza, le riforme a lungo ricercate e improvvisamente ammassate ai piedi degli attivisti non sono davvero l’obiettivo. Qualunque legge venga approvata, la polizia (anche con i budget tagliati!) continuerà a uccidere la gente. La crisi economica si aggraverà nel tempo – e questo, di fatto, garantirà che la polizia diventi più aggressiva, vessando la popolazione in quei luoghi con basi imponibili ulteriormente collassate dalla pandemia. Nel frattempo, la devastazione ambientale avanzerà ulteriormente verso l’estinzione di massa. Così, forse, mentre gli attivisti rimasti saranno occupati e la polizia dovrà affrontare finalmente il crescente malcontento pubblico, altri giovani dell’hinterland raccoglieranno alcune delle braci cadute che hanno attraversato tutto il mondo per anni. Forse sarà un gilet o un elmetto giallo, qualcosa che potrà riunire un proletariato frammentato e fonderlo insieme, anche solo per un momento, abbastanza a lungo per lanciare un primo assalto ai pilastri che sostengono questo inferno. Quello che ho scritto molti anni fa, alla fine di un ciclo simile, e ora ripreso da persone che non ho mai incontrato, rimane vero: il nostro futuro è stato saccheggiato. È giunto il momento di riprendersi il maltolto.

Note:

1.I saccheggi a Beverly Hills e Santa Monica sono stati ampiamente documentati. Per il video originale di una folla che saccheggia un treno in movimento a Chicago, vedi: https://www.youtube.com/watch?v=hB6lIqYoamo

2. EJ Dickson, “Mysterious Deaths Leave Ferguson Activists ‘On Pins and Needles’,” Rolling Stone, 18 marzo, 2019. https://www.rollingstone.com/culture/culture-news/ferguson-death-mystery-black-lives-matter-michael-brown-809407/.

3. Le rivolte cinesi sono meno conosciute, ma ugualmente sostanziali, e presentano una notevole somiglianza con le rivolte anti-polizia sviluppate altrove. La differenza principale è che queste si sono verificate negli stessi anni insieme ad un’ondata crescente di lotte di fabbrica. Per maggiori informazioni su questi eventi, si veda: “No Way Forward, No Way Back”, Chuǎng, Issue 1: Dead Generations, 2016. http://chuangcn.org/journal/one/no-way-forward-no-way-back/

4. L’occupazione del 2010 e gli eventi successivi sono troppo complessi per essere descritti qui in dettaglio. Una buona panoramica è fornita da: NPC, “The Solstice: On the Rise of the Right-Wing Mass Movements, Winter 2013/2014,” Ultra, 27 aprile, 2014, http://www.ultra-com.org/project/the-solstice/

5. L’argomentazione di questa sezione attinge a piene mani dai concetti sviluppati in un eccellente scritto politico sui Gilet Gialli, compreso l’uso di una terminologia simile: Paul Torino e Adrian Wohlleben, “Meme con la forza – lezioni dai gilet gialli” https://quieora.ink/?p=3262

6. Per saperne di più sul Movimento degli Ombrelli, vedi: “Black vs. Yellow: Class Antagonism and Hong Kong’s Umbrella Movement,” Ultra http://archivio.commonware.org/index.php/cartografia//489-movimento-ombrelli-hongkong

7. Per saperne di più sulla dinamica di questo “decentramento”, specialmente sul ruolo dei “frontliner” negli scontri di strada, vedi “Benvenuti nella prima linea: oltre il nodo violenza/non violenza” Chuǎng, 8 Giugno, 2020 https://kamomodena.noblogs.org/2020/07/05/benvenuti-nella-prima-linea-oltre-il-nodo-violenza-non-violenza/

8. Jacqueline Reuss, “Yellow Vests in a New Social Landscape,” Brooklyn Rail, Ottobre 2019, https://brooklynrail.org/2019/10/field-notes/Yellow-Vests-in-a-New-Social-Landscape.

9. Zacharias Zoubir, “A Vest that Fits All,” Commune, 25 Gennaio, 2019, https://communemag.com/a-vest-that-fits-all/.

10. Zoubir, ibid.

11. Torino and Wohlleben, ibid.

12. Ci riferiamo qui a Jenny Durkan, attuale sindaco di Seattle ed ex procuratore federale capo per il Western Washington durante il movimento Occupy e il primo movimento BLM, colei che ha contribuito a sviluppare il set di strumenti repressivi utilizzati dallo stato locale. Per darne solo un breve elenco, le sue responsabilità quotidiane includevano l’approvazione di una serie di retate della polizia in tutta la regione e la facilitazione dell’inchiesta del Gran Giurì sulla sinistra radicale nel nord-ovest del Pacifico, che ha costretto per mesi diverse persone (che non erano né accusate né sospettate di alcun crimine) in isolamento nella prigione federale nel tentativo di mappare socialmente le reti anarchiche della regione. Ha anche personalmente guidato l’infiltrazione della scena radicale di Seattle da parte di un informatore a libro paga, precedentemente condannato per reati sessuali e per pedofilia. Non solo non ha mai negato tali azioni, ma le ha invece ripetutamente giustificate in dichiarazioni pubbliche. Questi eventi sono stati tutti documentati nel dettaglio in una serie di articoli scritti da Brendan Kiley per il settimanale alternativo locale The Stranger.

13. Questo è esattamente lo schema opposto, quindi, a quello cospirazionista da smidollati, che sostiene che siano in realtà gli infiltrati (o anche la polizia in borghese) ad iniziare a spaccare le vetrine.

14. Questa crisi della razzializzazione negli Stati Uniti, guidata da trasformazioni nei processi materiali che hanno sostenuto la produzione della razza, rimane complessivamente sotto-teorizzata. Anche coloro che insegnano la teoria critica della razza e discutono in dettaglio il processo di razzializzazione a livello teorico spesso si basano su dati errati o superati, o concedono troppe argomentazioni a paradigmi antirazzisti liberali (come la lettura di un New Jim Crow rispetto all’incarcerazione di massa proposta da Michelle Alexander) e quindi ne misconoscono sia le dimensioni economiche essenziali sia la crisi causata dal continuo cambiamento di tali coordinate economiche. Una fonte superiore di dati sul fenomeno complessivo è Golden Gulag di Ruth Wilson Gilmore, ma anche questo libro (pubblicato nel 2007) è ormai superato nei dati e non dà un’idea precisa di come il processo sia cambiato nel decennio successivo alla Grande Recessione. E’ precisamente questo il momento in cui la crisi della razzializzazione inizia ad essere visibile. Per un esame più recente di alcuni dati su una caratteristica fondamentale della razzializzazione e su come è cambiata nel tempo, si veda: John Clegg e Adaner Usmani, “The Economic Origins of Mass Incarceration”, Catalyst, Vol. 3, No. 3, Autunno 2019, https://catalyst-journal.com/vol3/no3/the-economic-origins-of-mass-incarceration

15. Nelle città della rust belt, dove il profilo demografico è ancora prevalentemente nero e bianco, la dimensione di classe è ancora più saliente, poiché le classi medie e superiori nere allineate con l’apparato del partito democratico (o anche i dipartimenti di polizia e i sistemi giudiziari) sono incaricati della soppressione ad ampio raggio di una rivolta di proletari bianchi e neri, spesso in periferie impoverite o in città secondarie dell’hinterland ai margini dei mega complessi urbani.

2 risposte su “La Spirale”

[…] 15. Phil Neel giunge a conclusioni simili: «Nonostante sembrasse annunciarne il contrario, la nascita della zona autonoma era essa stessa un sintomo dell’asfissia iniziale del movimento. Seppur abbia fornito un qualche slancio spettacolare allo sviluppo di eventi simili altrove e abbia offerto una breve esperienza trasformativa per una manciata di persone, essa ha anche suggellato tutte le regressioni tattiche che già avevano preso forma quando il movimento sociale si era mosso per strangolare il movimento reale soggiacente. In effetti, questa rivolta nazionale innescata dall’incendio di una stazione di polizia ha concluso simmetricamente il suo primo atto con il rifiuto da parte dei manifestanti di bruciare un altro distretto, ceduto loro dopo una simile ritirata.». Cfr. Phil Neel, La Spirale, settembre 2020 (https://vitalista.in/2021/09/15/la-spirale/).  […]

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