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Note a margine dello scandalo Agamben

Redazione

Brecht pensa all’epoca senza storia di cui dà un’immagine la sua poesia
agli artisti figurativi, e di cui alcuni giorni dopo mi ha detto che
egli ritiene l’avvento più probabile della vittoria sul fascismo. Ma poi
Brecht aggiunse ancora qualcos’altro per giustificare l’inserimento dei
Canti infantili nelle Poesie dell’esilio, ed espose questo motivo – in
piedi davanti a me, sul prato – con una veemenza che ha solo di rado.
“Nella lotta contro quelli non si deve tralasciare nulla, Essi non si
propongono cose da poco. Pianificano per trentamila anni, mostruosità.
Picchiano su tutto. Ogni cellula si contrae spasmodicamente sotto i loro
colpi. Per questo non bisogna dimenticarne nessuna, Essi storpiano il
bambino nel grembo materno. Non non dobbiamo assolutamente dimenticare i
bambini”. Mentre egli parlava così, io sentivo agire su di me una forza
non inferiore a quella del fascismo; una forza, voglio dire, che
scaturisce da strati della storia non meno profondi di quella fascista.

Walter Benjamin, dall’appunto da Svedborg del 3 agosto 1938, Conversazioni con Brecht

Dove
la riflessione critica attuale di Giorgio Agamben sulla pandemia e
l’eccezione ci pare irriti maggiormente e persuada meno, nel profondo, è
nel suo restituire l’immagine di un consenso passivo allo stato di
eccezione imposto nella pandemia del coronavirus. Un’immagine che si
presenta come una manifestazione di normalizzata adesione alla
ingiunzione del primato assoluto della nuda vita, della vita fatta
coincidere con la sua mera riproduzione, priva di ogni attributo di
esperienza della libertà. L’immagine di questo consenso significherebbe
che la nuda vita si rivela il solo orizzonte, o valore, rimasto
all’esperienza umana, il che equivale a dire che l’umano si nega ormai
ogni esperienza: si rivela dunque si intuisce come un fatto, un dato che
emerge in questa circostanza ma che le preesiste.

Per
inciso, occorre annotare che qualcosa d’altro sembra a sua volta
rivelarsi come preesistente o proemiale alla gestione della pandemia: e
che vale per il proletariato storico, id est industriale, quanto per tanta
parte della sua demografia presente, ossia la maggioranza di anziani
lasciati morire a casa sotto la legittimazione della protezione sociale
dal contagio, mentre la verità è che mancano i posti letto e per questo
veniamo chiusi in casa tanto quanto viene lasciato peggiorare chi ha
contratto il virus – proprio allo stesso modo di come la demografia del
paese non per giovani è determinata qui dalla distribuzione miserabile
del reddito, ergo dalla miseria del welfare, ovvero dalla sua predazione.
Quest’altro preesistente è, diversamente da una sia pur ingiunta
promessa di garanzia della riproduzione biologica, la sua assoluta
relatività: su scala globale relatività alle latitudini rispetto al
privilegio, su scala locale relatività alla convenienza della
riproduzione sociale della macchina economica, su scala temporale
relatività di ogni forma di vita e dell’esistente stesso alla forza
distruttiva della predazione. Esperienza, dunque, del potenziale
tanatologico custodito dalla presente società umana.

Eppure
nella situazione presente l’immagine restituita da Agamben, ossia quella
nella quale apparirebbe che il cemento sociale al quale sembriamo
oggettivamente aderire si rivela essere il comando della sola nuda vita,
non è inesatta: almeno fin tanto che si conferma un consenso diffuso
alla sospensione o alla disincarnazione di ogni relazione sociale, sotto
la minaccia per la riproduzione biologica rappresentata dalla pandemia.
Ma cosa significa questo?

Vi è
in una conferenza di Georges Canguilhem del 1955, contro qualsiasi
identificazione dell’organizzazione sociale umana con l’organismo
vivente, un passaggio molto significativo. Canguilhem in sostanza
argomenta che la società umana, ogni società umana o meglio la società
umana in generale, pur avendo a che fare con il vivente perché composta
di umani viventi, non ha nulla a che fare dal punto di vista della sua
funzionalità con l’individuo, in quanto non obbedisce alle leggi di
omeostasi di un organismo biologico singolare, né con la specie, in
quanto non è confondibile con l’umanità che (e qui fa un ricorso
formidabile a Bergson) resta sempre aperta alla ricerca della sua
socievolezza specifica, mentre la società è per definizione chiusa (e qui
si comprende che per società umana in generale va intesa ogni società
costituita per esclusione e come singolarità astratta, trascendente
corpi e affetti). La società è un mezzo, uno strumento, dice Canguilhem,
esige regole ma non ha in sé stessa alcuna capacità di autoregolazione,
anzi il suo solo presumibile stato di normalità è il disordine, dunque
la regolazione le proviene da altrove – e qui, sempre per il tramite di
Bergson, Canguilhem risale ancora più sorprendentemente a Platone sullo
stesso tema dal quale Walter Benjamin era risalito per pervenire alla
sua critica del corpo sovrano e della legge disvelandone filologicamente
la finzione: la giustizia. Canguilhem usa la giustizia secondo Platone,
forma suprema della società e al contempo ad essa superna, irriducibile
ai suoi corpi, per fare funzionare la contrapposizione bergsoniana tra
saggezza ed eroismo: non vi è nella società, diversamente dall’organismo
vivente, alcuna saggezza e la prova che il suo stato normale è la crisi
è il suo bisogno di eroismi e di eroi che sullo sfondo di una
situazione di crisi emergono e vengono invocati a darle soluzione –
legittimati da una rappresentazione di estremo pericolo che è lo
specchio del permanente senso di minaccia percepito dalla società nella
sua natura precaria.

È
chiaro che, in barba ad alcuni forzati quanto marxianamente stupefacenti
sincretismi, che hanno purtroppo corso nel dibattito teorico, qui si
tratta della riproduzione sociale nella sua materialisticamente
determinata distinzione dalla riproduzione semplice.

Proviamo
a fare funzionare a sua volta Canguilhem in quella che può apparire la
contraddizione di Agamben tra la sua cattura della verità politica sullo
stato d’eccezione e una aporia del suo discorso attuale quanto alla
normalità, alla regola dell’eccezione come insegnata dalla tradizione
degli oppressi – per dire con il Benjamin dell’VIII tesi Sul concetto di
storia. Quale natura particolare ha l’adesione presente all’eccezione
formale di fronte a questa pandemia? O meglio: perché è in questa
circostanza che si afferma l’ingiunzione alla nuda vita?

Questa
pandemia non è la dengue, che tuttora fa più contagi e vittime del
coronavirus in America Latina, o la febbre gialla che ha fatto nuove
stragi negli ultimi due anni dal Sud Est asiatico all’Africa: questa
pandemia è globale perché minaccia i rapporti globali determinati della
società capitalista. Parte dalla metropoli del comparto globale
dell’edilizia come rifugio dei capitali in seguito alla crisi
finanziaria del 2008 e investe principalmente, oltre agli stati
petrolieri e del conflitto sul petrolio in Medio Oriente, la Cina,
l’Europa e gli Usa. Ciò dà conto della rappresentazione del pericolo ma
non ancora dell’adesione sociale che essa ottiene: per afferrarla
occorre forse pervenire a porsi il dubbio se questa stessa adesione non
si presenti in realtà se non come apparente. Il che non esime dal
constatare la forza di reificazione storica dell’immagine apparente e
dunque dal constatare, come fa Agamben appunto catturando la verità
dell’immagine di questo momento, che l’adesione alla garanzia della nuda
vita come fondamento del patto sociale è la forma con la quale il
momento stesso si presenta alla storia. Ma sappiamo, proprio con Agamben
e da Benjamin, che quella garanzia e quel patto, entrambi, sono
finzione. Ovvero una falsa sintesi di opposti: tale quale, in stretta
parentela, quella della legittimità sovrana in rapporto a giustizia e
legge. Che cosa l’esperienza degli oppressi insegna sul rapporto tra la
forma-di-vita della società capitalista e la riproduzione semplice se
non che questo rapporto semplicemente è nullo? Che la missione della
società capitalista, inverata nel trentennio della globalizzazione, è
precisamente l’esclusione, il disinteresse, la libertà del comando, ossia
del profitto, da ogni garanzia di riproduzione biologica? Ora è questa
verità, affermata nella pratica del comando e introiettata dagli
oppressi, che appare come nudità: si accetta l’ingiunzione del comando
all’isolamento e alla sospensione della vita sociale proprio perché
nell’istante del massimo pericolo per la società e, coincidentemente ma
non insieme, per la vita biologica si condensa tutta l’esperienza del
divorzio tra le due. In altre parole affiora istantaneamente alla
coscienza degli individui che a deporre la finzione del patto sociale è
stato già il potere stesso: e dunque a presentarsi nuda è la realtà
della società, è la sua coincidenza col potere, è la sua impotenza a
produrre qualsiasi omeostasi, autoriparazione delle ferite ai corpi,
protezione della vita.

Vero
è che in questa registrazione istintiva della verità sulla società e
sul potere si riproduce di fatto l’ingiunzione ad aggrapparsi alla nuda
vita quale unico orizzonte dei comportamenti sociali: ma sarebbe meglio
dire che vi si riflette. Per un verso infatti il potere ingiunge la
sospensione della vita sociale come condizione necessaria alla propria
rilegittimazione: per l’altro invece questa stessa sospensione trova
adesione tra le persone solo come una condizione consapevolmente forzata
dall’assenza evidente di qualsiasi potenza di difesa efficace della
vita da parte del potere e della sua organizzazione sociale. In tale
dicotomia e oltre l’immagine istantanea di una forzata convergenza
possiamo intravvedere il bivio tra forme-di-vita che si prepara. Meglio
ancora: il bivio tra una emergenza di forma-di-vita che a partire da
questa nudità della società e del potere ne seceda per affermare il
valore della vita come incontro e mutuo aiuto dei corpi negli affetti e
riapra così l’orizzonte di un’esperienza libera – e una forma-di-vita
invece imposta come riproduzione della società e del suo comando,
riconfigurati esattamente sull’accettazione della verità della loro
im-potenza sostanziale alla protezione della vita, dei corpi e degli
affetti come nostro comune, e anzi sull’accettazione del loro destinarci
alla separazione al cospetto di una distribuzione di morte. E questo
tanto più quanto più – come pare proprio il caso della nostra situazione
presente – la riconfigurazione della società capitalista e dei suoi
rapporti generali di potere prende la forma di un predominio del
capitalismo digitale, della cattura dei dati e di una funzione
predittiva dei dispositivi del controllo: ossia di una presa totale sul
biologico che al contempo lo mineralizza.

In
questo senso, per quanto altrettanto sconvolgente dell’immagine
restituita da Agamben, l’anonimo Monologo del virus diffuso da Lundi
Matin appare un’operazione discorsiva dotata di una diversa efficacia e
potenza: proprio nel suo rivolgersi alla forma attuale – colta in questo
istante – del comportamento sociale medio per porlo di fronte a quella
scelta. Una scelta che sembra prendere fin da ora globalmente corpo in
molti e diversi segnali di vita conflittuale, che tendono a sfatare
l’immagine cristallizzata di una decisione comune sulla vita stessa
paralizzata nella cattura da parte della nuda tanatocrazia cui
corrisponde l’automa che è pervenuto ad essere il Leviatano.

Comitato Corrispondenza e Traduzione – Sezione romana dell’Internazionale Vitalista.

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