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Vita, Guerra e Politica: dopo la ribellione di George Floyd

K.N. & Paul Torino

Intervento di Vitalist International alla conferenza del 14 Novembre 2020 The Undercommons and Destituent Power—Between Pandemic and the Uprising.” Originariamente pubblicato da Ill Will Editions: https://illwilleditions.com/life-war-politics/


I.

Viviamo dopo la ribellione di George Floyd. Non solamente nel mezzo di una pandemia globale, non solamente nel mezzo del collasso del sistema politico americano, non solamente nel mezzo di una elezione controversa, non semplicemente nell’era che molti potrebbero chiamare del movimento “Black Lives Matter”, ma dopo la ribellione dell’estate 2020.

La ribellione di quest’estate si è manifestata come una risposta—e non, è importante, come una reazione,—all’omicidio di George Floyd. Da lì si sono definiti sommariamente i contorni di cinque modalità. La prima, la reazione immediata rispetto alla morte di George Floyd Jr. negli ultimi giorni di Maggio, che sono culminati in una sollevazione ampiamente diffusa e nell’incendio del Terzo Distretto (di polizia a Minneapolis, n.d.t.) da parte di migliaia di manifestanti. La seconda, quasi una settimana di saccheggi di massa nei quartieri dello shopping, scontri nelle città e nei centri urbani in centinaia di municipalità in tutto il paese, specialmente all’inizio di giugno. In questa fase, milioni di persone hanno colto l’attimo e/o lo spazio necessario per costruire liberamente una risposta proporzionata alla morte di George Floyd. Nella terza modalità, che ha avuto inizio con l’uccisione di Rayshard Brooks ad Atlanta, delle insurrezioni locali hanno risposto ad altri omicidi da parte della polizia a Rochester, Kenosha, Lafayette, Louisville e altrove. Queste forme non rinegoziano il potere nelle città, ma hanno reso possibile agli afroamericani e ad altre persone consce di assumere il controllo sulle priorità etiche e politiche nel loro contesto, lasciando la polizia e le amministrazioni cittadine in posizione di ritirata. Contemporaneamente, ma non di meno in aggiunta, una quarta modalità, i manifestanti hanno incominciato a costruire delle “zone autonome” nei centri della città e a scatenare attacchi iconoclasti ai monumenti confederati e coloniali. Ciò ha permesso loro di ampliare la portata del movimento dopo che i poliziotti erano stati incriminati a Minneapolis e di assumere l’iniziativa tattica anche se le folle erano diminuite nel numero. Nella quinta modalità, iniziata intorno al 4 luglio, delle folle apparentemente determinate composte da gente preparata allo scontro e con esperienza, hanno portato avanti attacchi ad obiettivi o deliberatamente affrontato la polizia. Questa fase è coincisa con battaglie ritualizzate ed intense tra manifestanti e polizia a Richmond, Seattle, e—la più celebre—Portland. Nel novero degli attacchi c’è l’incendio del cantiere del carcere minorile a Seattle, attacchi a varie stazioni di polizia e forze dell’ordine ad Atlanta e ancora incendi nei tribunali a Oakland e nel Colorado. Questa modalità ha delle cose in comune con le precedenti, ma ha appresentato il crepuscolo delle innovazioni spaziali o tattiche in seno al movimento. Dopo la fine di luglio, crediamo, si è assistito al declino innegabile delle azioni di massa iscritte nella ribellione di George Floyd. Allo stesso tempo la sollevazione non è per niente cessata. Fiammate ed esplosioni occasionali, tipiche della terza modalità della ribellione, stanno ancora avendo luogo, come abbiamo vista a Philadelphia nella settimana prima delle elezioni, in seguito all’uccisione di Walter Wallace.

Idris (Robinson n.d.t) ha detto: “Una ribellione senza leader e multirazziale è di fatto avvenuta.” Sì. Noi elaboriamo: il fatto che la ribellione di George Floyd sia avvenuta vuol dire che un movimento antagonista autonomo ha esposto il progetto biopolitico della civiltà occidentale attaccandolo.


II.
Dentro le lotte, il terreno e i termini, gli schieramenti e le poste in gioco dell’antagonismo sono essi stessi messi in questione costantemente. La ponderazione delle forze, il calcolo del rischio, l’impatto della fanteria: tutti questi elementi potrebbe essere interpretati, non genericamente quali fattori di una battaglia, ma come l’anatomia di una specifica concezione dell’arte della guerra. Se il continuum Vita-Guerra viene coscientemente offuscato dai moderni stati industriali, e la mobilitazione degli affetti pubblici, delle ansie e dei pregiudizi viene crescentemente agita in una “guerra culturale” bipartisan, gli attori emancipatori devono riflettere sui termini dei termini, non per contendere i campi opposti o nemici, ma il terreno stesso del conflitto che si dispiega.


La governamentalità occidentale mantiene l’ordine pubblico regolando, guidando, facilitando, abbandonando, uccidendo e controllando l’esistenza biologica tra la nostra specie e le forme di vita dalle quali la nostra specie dipende. Ciò che è permesso e ciò che è possibile vengono congiunti costantemente, così come la vita non regolata viene associata costantemente alla scarsità, all’incertezza, alla sofferenza, e alla Negritudine. Ma tanto nella prospettiva della governamentalità quanto in quella dei governati, l’assunto biopolitico è stato sconvolto. Come David Wallace Wells e altri analisti del clima hanno mostrato, siamo usciti dalla cosiddetta “Nicchia climatica umana”. L’esistenza della nostra specie su questo pianeta, per circa trecentocinquantamila anni, ha avuto luogo in un insieme di specifiche e relativamente delicate condizioni che non sembrano avere più speranze di futuro. Con percentuali di carbonio che superano lo 0,4 per mille, un’acidità degli oceani che annienta la vita marina, il collasso della biodiversità, e una miriade di sofisticati problemi ecologici che minano le basi per la complessa esistenza sulla Terra, la possibilità di assolvere al mandato del governo biopolitico—amministrare, regolare, e governare la vita—è essa stessa revocata in dubbio. Ad oggi, circa 1000 Americani muoiono di coronavirus ogni giorno, senza che siano in campo piani per contenere la “diffusione incontrollata” del morbo sul territorio. Questa estate oltre cinquecentomila abitanti dell’Oregon sono stati sfollati dagli incendi catastrofici divampati dalla California allo Stato di Washington. Non deve dunque sorprendere molto che le rivolte contemporanee adottino posizioni che non investono solamente le ineguaglianze e la corruzione crescenti, ma i termini stessi della vita, quali vite valgono, per cosa vale la pena morire.


Nella nostra era, la vita è insieme il terreno e l’oggetto di un conflitto in corso. Ma di quale tipo di conflitto si tratta? La governamentalità contemporanea tende a trasformare tutti gli antagonismi, latenti o aperti, in un contesto con una forma di base: quella definita tra gruppi costituiti con interessi articolabili o coerenti e le figure normative per rappresentarli. E, da un certo punto di vista, molti degli eventi che ora conosciamo come Ribellione di George Floyd possono essere compresi precisamente in questi termini. Per esempio, dopo i primi giorni della rivolta a Minneapolis, il programma “Definanziamo la polizia” ha guadagnato punti sui media come la richiesta apparente della più ampia ribellione. Gruppi specializzati si sono costituiti dentro il movimento: squadre di vigilanza armata a sorvegliare le zone autonome; milizie di estrema destra e di suprematisti bianchi “dispiegate” lungo il Nordovest Pacifico; bande di antifascisti armati che hanno affrontato milizie libertariane a Kenosha, a Seattle e a Portland. Il flusso caotico della rivolta è ridescritto, quanto più possibile, in uno scontro settario tra “Black Live Matters/Antifa” e lo spettro di un’estrema destra variamente identificata in Boogaloo Boys, neonazisti, Proud Boys, o semplicemente estremisti trumpiani. Vaste riserve di sentimenti ed energia vengono reimmaginate come interiorità intenzionali e organizzative. Questo stile di conflitto emerge quando l’iniziativa degli attori della ribellione non è abbastanza forte da infrangere il tempo o lo spazio dell’ordine costituito, e deve prende posizione dentro le configurazioni del potere.


E ancora, una lotta sui termini di un conflitto si nasconde in ogni antagonismo, per quanto occultato esso possa essere. Dietro lo scontro tra forze opposte, vi è anche una lotta tra concetti di vittoria e di sconfitta, e sulla natura dell’ostilità stessa. La forma dell’antagonismo produce polarizzazioni irriducibili, così che la soluzione può risultare solo nella definitiva eliminazione di una o di entrambe le parti? Tende a riconfigurare la struttura della società circostante, o è un conflitto con il quale possono convivere degli spettatori? La battaglia è un combattimento paradigmatico tra opposti etici, la risoluzione del quale altererà in modo fondamentale la vita quale la conosciamo? Se una parte perde, l’altra vince? La lotta consente gradi diversi di specializzazione, forza, violenza e creatività? O tende a diventare più specializzata, più violenta e meno creativa man mano che si sviluppa?


L’alba della ribellione a Minneapolis, per come specificamente è culminata nell’incendio del Terzo Distretto, è stata un esempio del tipo di lotta che vogliamo vedere, non solo per gli eventi impressionanti e impensabili sul campo, ma anzitutto per quanto è stato reso possibile dalla disposizione delle forze. Chiunque sia stato presente in quei giorni alla fine di Maggio può raccontarvi che quanto ha avuto luogo in quei pomeriggi e in quelle sere era una rivolta giovanile genuina, che estendeva la partecipazione anche tra adulti e ragazzini. Avendo assunto l’iniziativa libera e gioiosa sul tempo e lo spazio della battaglia, i ribelli hanno scelto di fare di tutto una festa. Skaters saltavano su pile di rifiuti in fiamme, bambini spingevano carrelli di giocattoli e succhi di frutta fuori dai negozi insieme ai genitori, giovani amanti si abbracciavano sotto i loro cappucci oversize, divorandosi gli sguardi mentre l’inferno fumante davanti a loro—il Terzo Distretto—colorava tutto di una scura tonalità di arancio. La polizia incontrava forze nemiche ostiche, lanciate in operazioni di guerriglia aspre e senza sosta. Si immaginava atti coordinati e intelligenti di commando sofisticati e, forse, finanziati. Nei fatti, la polizia e i ribelli non erano nello stesso isolato, nello stesso quartiere, nella stessa città: non erano nella stessa realtà. Con il suo teatro di operazioni preferito—la metropoli moderna—ridotto a un campo da gioco fumante, e il filtro psicologico del proprio comando—la realtà del consenso—del tutto esaurito, la polizia vagava per la città come un gruppo disperato di persone con manganelli e gas lacrimogeni, e niente più. Questo è precisamente il tipo di conflitto che crediamo milioni di persone siano state in grado di intraprendere per circa una settimana: l’attività sovversiva asimmetrica con la quale gruppi non specializzati, per lo più disarmati, composti di differenti etnie, fedi religiose, sessualità ed età potrebbero usare liberamente tempo, spazio e infrastruttura in accordo all’iniziativa senza regole dei propri desideri e insieme alle capacità delle persone attorno a loro.


Durante la ribellione sono emerse forme di scontro di massa a bassa intensità, come una forza decentralizzata di “frontliners” che ha incluso “blocchi delle mamme” e “blocchi dei papà” mobilitati a partire dalle loro sfere soggettive in un formato che ha sovvertito e sfidato simultaneamente la coerenza normativa cui tali sfere si riferiscono tipicamente. Se queste forme non sono bastate alle forze ribelli per riprendere completamente l’iniziativa, o per reimmaginare il teatro delle operazioni, o per stabilire il tipo di asimmetria bellica e fenomenologica somigliante al periodo di fine Maggio o inizio Giugno, hanno però facilitato esperimenti di ridisposizione parziale della forza, consentendo a vari elementi di mescolarsi reciprocamente e alla fine mantenere l’iniziativa autonoma.


Ma cosa ne è di questo “conflitto sul conflitto”, adesso che le azioni dell’estate sembrano dissolversi? Sta emergendo una disputa sui confini stessi del politico. Qualche giorno prima delle elezioni, per esempio, un fuoristrada di una carovana trumpista (che includeva un eletto locale) ha sparato sui manifestanti “Black Lives Matter” riuniti presso il monumento sfregiato a Robert E. Lee a Richmond, Virginia. Ai seggi, entrambe le parti hanno chiamato a difendere il voto, dando il senso che a rischio sono gli stessi istituti democratici. Azioni intraprese nel corso della ribellione—in particolare il saccheggio, l’incendio, e la strana fattispecie di “incitamento alla sommossa”—sono state perseguite non come gesti politici, ma come attività criminale, spesso descritti quali atti di “opportunismo” distinti e paralleli rispetto alle proteste altrimenti legittime. Il Partito Repubblicano non smette di contestare la legittimità dello stesso processo elettorale. Le manifestazioni nel corso dell’ultima settimana prima delle elezioni—a Portland, Minneapolis, New York City—sono state represse pesantemente dalla polizia, così come simultaneamente sono stati criminalizzati nel paese i partecipanti alle corse su strade e ai “side show” o ai “takeover” di auto (una sottocultura giovanile che ha espresso una estesa partecipazione alle proteste questa estate).


Tutto questo per dire che il dominio della politica legittima è ancora una volta parzialmente sotto il controllo della polizia. Entrambe le ali politiche predominanti dello stato sono impegnate in attacchi unificati, per quanto apparentemente opposti, alla libera iniziativa degli esseri umani. Combattendosi in un conflitto che sembra esponenziale, i due maggiori partiti sperano di ricostituirsi reciprocamente come l’antagonismo paradigmatico del presente. Stanno facendo tutto quello che possono per attirare la nostra attenzione, coinvolgerci, includerci nel processo, per forzarci a scegliere una delle loro miserabili, tristi parti.

III.

Mentre i presupposti di base del progetto biopolitico occidentale vengono messi in discussione da ogni parte, la linea di demarcazione tra periodi di pace sociale e disordini ha cominciato a confondersi. Questa, infatti, è la conclusione peculiare a cui porta ogni attenta considerazione degli eventi geograficamente e temporalmente disparati raccolti colloquialmente sotto la bandiera di “Black Lives Matter”. Il fenomeno di massa che abbiamo chiamato la “Ribellione di George Floyd” è già stato sussunto sotto questa bandiera dai media mainstream. Mentre una certa prospettiva riconosce con precisione la continuità delle lotte alla soggezione e all’assassinio dei neri in questo Paese dal 2014 al 2020, e un’altra potrebbe essere altrettanto precisa sulla continuità tra le lotte dei neri del nostro decennio e quelle degli anni ’60 e ’70, dobbiamo anche riconoscere che viviamo in un decennio in cui proliferano una varietà di conflitti. Negli ultimi anni, e ancor più nel 2020, abbiamo visto lotte per la casa, lotte contro la detenzione degli immigrati, lotte oltre confine, scioperi dei lavoratori, movimenti di insegnanti, movimenti di studenti, rivolte nelle carceri, e persino momenti di disordini il cui significato politico è difficile da accertare, come i disordini insolitamente distruttivi a Los Angeles per i Lakers, e poi per i Dodgers, due settimane fa.

Nel nostro contesto, i tradizionali apparati concettuali di rivolta o di rivoluzione affondano. Le rivolte contemporanee non rappresentano una forma di comunicazione, non si uniscono intorno a identità coerenti per dare luogo ad un nuovo soggetto politico, e non inaugurano una nuova esperienza universale della realtà da sottoporre aggressivamente a forme avanzate di segregazione algoritmica. Laddove molti possono immaginare una coscienza politica sempre più consapevole e intelligente, una coscienza rappresentata da una fazione specifica della società che si trova in una posizione unica per liberare il mondo dalle sue miserie, vediamo invece il costante accumulo di piccole realtà. Rotture e frammenti si staccano da un centro sempre più vuoto e privo di significato.

È in questo contesto che crediamo di condividere due nozioni significative con i nostri co-panelisti [coloro che condividono il panel della conferenza, n.d.t.]—e speriamo che ci correggano se non fosse così! La prima è l’affermazione di una “ante-politica”, per usare il termine scelto dagli organizzatori del nostro panel. (Moten & Harney hanno espresso una nozione molto vicina nella loro concezione del “ciò che ci circonda”, una situazione di attività e di vitalità oltre la recinzione della fortezza e del comune della politica tradizionale. Agamben ha insistito sulla necessità di pensare una “zoe” politicizzata). Qui si intende una vita politicizzata indipendentemente dal suo ingresso o dalla sua qualificazione da parte della politica nella sua forma istituzionalizzata. Ciò è doppiamente significativo. In primo luogo, si evita di postulare un compito politico-ontologico: “diventare umano” o “diventare politico”, che permette, esprime e riproduce l’esclusione-inclusiva che facilita la supremazia bianca dello Stato. In secondo luogo, essa offre la possibilità di spostare il luogo della politica dal terreno dell’apparato di governo contemporaneo a quello della vita quotidiana.

Risulta correlata a questa anche la seconda idea che crediamo di condividere con i nostri co-panelisti: l’affermazione del primato della rivolta in relazione a ciò che la governa o la cattura. Come sapete, Stefano Harney ha recentemente dichiarato: “L’insurrezione è prioritaria, la ribellione viene prima di tutto. Non ci ribelliamo contro la polizia perché c’è la polizia. È piuttosto la polizia che ci perseguita se ci mostriamo come suoi antagonisti principali”.

Come possiamo intendere questi due punti—l’ante-politica e il primato della rivolta—nei termini della ribellione di quest’estate? Per quanto riguarda qualcosa di simile a un’ante-politica, capiamo che la ribellione ha mobilitato stili di vita che erano però già in qualche misura esistenti. Le reti di mutuo soccorso istituite per distribuire cibo a chi mancava durante la pandemia sono diventate mezzi di raccolta e distribuzione di viveri per i frontliners. In alcuni luoghi, i fondi per le cauzioni locali esistenti si sono moltiplicati di dieci volte per sostenere gli arrestati durante la ribellione. Le solidarietà di quartiere sono diventate strumenti di organizzazione per la sicurezza, o per gli attacchi. I coinquilini si sono trasformati in crews per i frontliners, e anche le mamme e i papà sono diventati forze combattenti a pieno titolo. Fenomeni che sembravano laterali, che per molti versi erano degli incubatori strategici per i giovani proletari di tutto il paese, hanno dimostrato anche l’assoluta rottura del controllo della polizia all’interno degli spazi urbani riconquistati. Spazi autonomi, gallerie d’arte indipendenti, snodi locali di ogni tipo, sono diventati luoghi di incontro e di organizzazione informale. Anche la criminalità organizzata ha avuto il suo ruolo. In questo senso, la vecchia demarcazione tra organizzazione e spontaneità cade, o almeno si complica palesemente. Un livello di organizzazione—un’organizzazione nascente, sciolta, quasi organica, che in molti casi era apolitica, un’organizzazione a livello della vita quotidiana—si è rivelato esistere così al di sotto e al di là dei partiti, delle organizzazioni, o delle non profit tradizionalmente riconosciute come attori politici. Il primato della rivolta in relazione a ciò che la cattura segue linearmente da qui. È in questo senso che consideriamo la ribellione non come una reazione all’omicidio di George Floyd, ma come una risposta: l’espressione di una miriade di forze sensibili, vitali, capaci di mutare per rispondere alle esigenze della sua situazione.

Su questo stesso livello viviamo oggi in un mondo popolato da fenomeni nati in seno alla ribellione: i frontliners, i fondi di solidarietà di massa, il Do It Yourself e gli spazi autonomi il cui stesso carattere politico è stato elaborato e reso manifesto. Cosa succede ora a questi molteplici “divenire” molecolari?

La questione della rivoluzione può essere quella di un’epoca lontana. Tuttavia, se si può ancora parlare di un compito “rivoluzionario” oggi, è quello di nutrire e alimentare le forme, le pratiche, le infrastrutture e le tendenze che hanno potenziato la ribellione—dalle reti di mutuo soccorso alle solidarietà di quartiere, ai side show—e di incoraggiare, rafforzare e rinvigorire qualsiasi fenomeno sia emerso sulla scia di quei mesi estivi, per proteggerlo dalla repressione, dalla confusione o dalla sua cancellazione. Queste occasioni devono venire colte per cimentarsi di volta in volta in un conflitto aperto, con metodi e risorse che non sono in alcun modo presupposti, ma che si sviluppano attraverso una sottile determinazione.

2 risposte su “Vita, Guerra e Politica: dopo la ribellione di George Floyd”

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